sabato 26 agosto 2023
Un mese fa la più imponente operazione contro la criminalità organizzata compiuta in Capitanata: il comandante provinciale dei Carabinieri, Miulli, parla della “Società foggiana”
Un'immagine dell'operazione "Game over" contro la "Società foggiana"

Un'immagine dell'operazione "Game over" contro la "Società foggiana" - Ufficio stampa Carabinieri

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«La provincia di Foggia per troppi anni è stata avvolta in un cono d’ombra che ha investito ogni livello, a partire da quello mediatico. Una condizione ideale perché una nuova mafia, una quarta mafia, potesse crescere e affermarsi». Preferisce la concretezza alla diplomazia il colonnello Michele Miulli, pugliese di Gioia del Colle, da 11 mesi comandante provinciale dei Carabinieri di una provincia, la Capitanata, tra le più difficili d’Italia. Non una scelta casuale, quella del comando generale dell’Arma, che ha inviato a Foggia, Comune tuttora commissariato per mafia, l’ex comandante del Reparto operativo di Milano. E che, pochi mesi dopo l’insediamento, con i suoi uomini, e sotto il coordinamento della Dda di Bari, ha perfezionato la più imponente operazione antimafia nella storia di questo territorio, denominata “Game over”, conclusa, poche settimane fa, con l’arresto di 82 persone: vertici, soldati e vedette della “Società foggiana”, la quarta mafia appunto.

Il comandante provinciale dei Carabinieri di Foggia, colonnello Michele Miulli

Il comandante provinciale dei Carabinieri di Foggia, colonnello Michele Miulli - Ufficio stampa Carabinieri

Colonnello, cosa intende per “cono d’ombra”?

Nella conferenza stampa dell’operazione “Game over”, il procuratore distrettuale Antimafia di Bari, Roberto Rossi, ha parlato di una colpevole sottovalutazione del fenomeno mafioso, in questo territorio, da parte dello Stato. Credo siano parole condivisibili alle quali mi permetto di aggiungere un’altra considerazione. Anche i media nazionali non hanno dato al problema il giusto rilievo. Questa “assenza” non ci semplifica le cose.

Che cos’è la Società foggiana?

È un’organizzazione mafiosa priva di un vertice aggregante ma che ha una struttura interna compatta, basata sul familismo. Funziona su un modello federale, ha equilibri fluidi, utili a tessere alleanze con le altre mafie presenti nel Foggiano, a Cerignola come a Vieste, o a San Severo. È una mafia relativamente giovane, il suo primo riconoscimento risale al 1994 con il famoso maxi-processo Panunzio a 67 imputati. Ma, pur se giovane, è un’organizzazione evoluta, con spiccate capacità imprenditoriali, che fa un uso della forza spregiudicato, persino spettacolare. E che reinveste i profitti in attività imprenditoriali.

Perché “Game over” è una pietra miliare contro la quarta mafia?

Intanto per il numero delle persone coinvolte, poi perché abbiamo preso i capi dell’organizzazione delle tre storiche “batterie” che costituiscono la Società foggiana. Inoltre, perché è stato disvelato un sistema per la gestione monopolistica del traffico di cocaina, in analogia con quanto accade per le estorsioni, i due pilastri della Società foggiana. Ma il curriculum è ricco anche di omicidi, rapine, furti di autovetture finalizzati al riciclaggio, fino agli assalti ai furgoni portavalori che hanno un impatto quasi scenografico.

Cioè?

Sono vere e proprie azioni militari condotte da commando organizzati, esportate pure fuori dalla Puglia.

Perché si arriva a uccidere?

Si arriva ad uccidere quando saltano gli equilibri tra organizzazioni criminali diverse.

A proposito di equilibri, l’operazione “Game over” dimostra proprio che prima delle ambizioni personali vengono gli affari. Non è così?

Confermo. Queste tre batterie della Società foggiana, nonostante fossero in conflitto, hanno raggiunto un accordo con cui è stato costituito un “assetto multipartecipativo” del traffico di droga per condividere e spartire i profitti. È un’assoluta novità rispetto alle altre mafie, perché nessun’altra organizzazione mafiosa gestisce il traffico di stupefacenti in modo unitario. Il controllo del territorio passa quasi in secondo piano a vantaggio di equilibri economici.

Che fine fanno questi sudati “proventi”?

Oltre ai reinvestimenti imprenditoriali, i soldi della cassa comune servono a pagare stipendi e spese legali, e per sostenere le famiglie dei detenuti.

Qual è stato lo spartiacque tra il “cono d’ombra” e la presa di coscienza, almeno a livello istituzionale, di un fenomeno così radicato?

Senza dubbio la strage di San Marco in Lamis del 9 agosto 2017, in cui ci furono 4 morti, tra cui due vittime innocenti, i fratelli Luciani, due agricoltori uccisi perché testimoni di un agguato. Questo accese un faro sulla brutalità della mafia foggiana. Da allora la pressione dello Stato si è fatta serrata. Si sono susseguiti indagini, arresti, condanne, interdittive antimafia, fino allo scioglimento di più consigli comunali.

La “Società” ha collegamenti con altre mafie?

La nascita della mafia foggiana si deve proprio ad un’intesa con il boss camorristico Raffaele Cutolo. Il riferimento è all’incontro del gennaio 1979 all’Hotel Florio, sulla strada che collega Foggia a San Severo, che diede vita alla Nuova camorra pugliese. Poi, dopo una serie di vicissitudini, e dopo la creazione della Sacra corona unita, nata nelle carceri italiane, si registrarono guerre di mafia che hanno portato la Società foggiana ad affrancarsi dai legami con la camorra. Più recentemente sono documentate intese con la ‘ndrangheta e con organizzazioni estere, come la mafia albanese.

Il territorio foggiano come vive questa presa asfissiante e tentacolare della mafia?

Come le dicevo, dal 2017 l’azione dello Stato ha indebolito le strutture mafiose. E con noi hanno lavorato tanti attori della società civile, associazioni antimafia, Terzo settore, scuole, diocesi. Ma è un percorso da completare perché lo strumento repressivo non è risolutivo. C’è bisogno dell’apporto di tutti, ogni cittadino può metterci del suo schierandosi, testimoniando, facendo emergere il valore della presenza negli eventi antimafia. Questa assunzione di coraggio e di consapevolezza richiede un tempo di elaborazione. Ce lo insegna la storia. Abbiamo dovuto attendere le stragi di Capaci e di via D’Amelio di 31 anni fa, in Sicilia, prima che ci fosse un certo sollevamento popolare nei confronti di Cosa nostra. Forse anche qui dovrà trascorrere altro tempo. Non ne so misurare la congruità. Nel frattempo, è fondamentale seminare progetti di cultura della legalità.

Un altro grande problema di questa provincia sono i ghetti dei migranti stagionali dove non esiste lo stato di diritto, e che Avvenire denuncia da anni…

Nel territorio ci sono molti insediamenti abitati da migranti africani (Senegal, Guinea, Gambia, Mali) che vivono in baracche in condizioni di assoluto degrado, prima di tutto igienico-sanitario. È inaccettabile, a vederli così ti si stringe il cuore. Abbiamo arrestato imprenditori che, per poter lucrare, facevano dormire queste persone in edifici diroccati, a rischio crollo. Gli insediamenti più importanti sono il borgo Mezzanone, a Manfredonia, il ghetto di Rignano Garganico, a San Severo, e poi il Borgo Tre Titoli a Cerignola. Parliamo di 6-7.000 braccianti l’anno. Nel Foggiano ci sono 60.000 aziende agricole che operano su circa 5.000 ettari di superficie coltivata, è l’“orto d’Italia”. Un’economia importante, che si deve anche ai braccianti, che però guadagnano 5 euro a cassone, o 4 euro all’ora, per giornate che superano le 8 ore e con temperature anche superiori ai 40 gradi.

Che cosa si fa per aiutarli?

Oggi tutte le istituzioni, a partire dalla prefettura, sono impegnate a realizzare strutture dignitose, foresterie da destinare all’accoglienza temporanea. Uno dei progetti più importanti riguarda Borgo Mezzanone, coinvolge i Comuni di Foggia e Manfredonia, che usufruiranno anche dei fondi del Pnrr per riqualificare una serie di borghi e favorire un’inclusione sociale, affinché queste persone possano anche mandare a scuola i propri figli, accedere all’assistenza sanitaria, essere regolarizzati, un po’ come sta avvenendo nel Salento. Per alcuni progetti di riqualificazione è stato coinvolto anche il Politecnico di Bari. Da poco si è riusciti a trasferire in moderni moduli abitativi dei lavoratori migranti che si trovavano in un piccolo campo, a Stornara, reso celebre, due anni fa, per la morte di due bambini, seguita ad un incendio.

E sul piano della repressione?

Lavoriamo con i carabinieri dell’Ispettorato del lavoro per aggredire lo sfruttamento. Negli ultimi 12 mesi abbiamo raddoppiato le indagini, eseguito 26 misure cautelari e sequestrato 35 aziende, ora in amministrazione controllata.

Quali reati contestate?

Ricorrono con più frequenza l’intermediazione illecita, lo sfruttamento del lavoro, la tentata estorsione, la falsità ideologica. A volte un’indagine parte da un incidente stradale, quando per esempio ci imbattiamo in automezzi con braccianti. Spesso si tratta di veicoli modificati illegalmente per trasportare più persone. Ma il vero problema nella nostra attività è la mancanza di denunce.

Il contesto non aiuta i braccianti…

Nessuno di loro rivela di essere sfruttato. Ma attorno a loro vive un mondo di false autorizzazioni, false attività formative, falsa documentazione delle norme di sicurezza. I migranti non denunciano perché sono costretti a rivolgersi al “caporale” per lavorare e per essere trasportati sul luogo di lavoro. In questo senso, credo possa essere di grande aiuto per loro il supporto delle organizzazioni agricole e sindacali, oltre che degli imprenditori onesti.

Chi sono i caporali?

Spesso sono ex braccianti, in passato a loro volta sfruttati, che conoscono il territorio, la lingua, gli imprenditori, hanno confidenza con le pratiche documentali, e sono riusciti a dotarsi di una flotta di veicoli per trasportare braccianti. Se non ti rivolgi a loro non lavori. Hanno per così dire compiuto il “salto di qualità”. Ma lo ha fatto anche lo Stato.

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