domenica 20 dicembre 2009
Barbara, dal traffico di droga al rifiuto dell’aborto. Negli anni Novanta era una delle regine delle notti dell’Oltrepò, ben inserita nei traffici di cocaina della Milano da bere. Poi il crollo e la scelta di vuotare il sacco, uno stupro come «punizione», la scelta di una vita di lavoro e la gravidanza, accettata come una rinascita: la vicenda di una ragazza che ha detto no al crimine.
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Una perdita, in fondo, è solo un filo di sangue. Routine per un pronto soccorso - «vada a casa e riposi» - ma Barbara trema. Si regge al mancorrente. Pochi passi e ci fermiamo al primo bar, i camionisti hanno scaricato i peperoni all’Ortomercato di Milano e ora puntano verso Genova. Una carezza furtiva al ventre, una gravidanza di sei mesi, uno strano matrimonio e un compagno che alla bella notizia ha cambiato la serratura di casa. Ragazza madre senza essere stata una ragazza: «le mie compagne di classe abbassavano lo sguardo mentre passavo». Le si inumidiscono ancora gli occhi, chiari e induriti come le cicatrici; tante, si confondono ai tatuaggi. Sceglie il tavolino contro la parete, poi ci ride su. «Non ho paura di nessuno se non per lei, la piccola. Ma basta una ferita a ricordarmi quel mattino». Quando i grumi la guardavano da vicino, rannicchiata sul pavimento, dove il dolore mescolava sangue, lacrime, quant’altro. «Prima dello stupro non ho mai avuto questa reazione, e dire che ne ho visti con la faccia rotta perché facevano i furbi». Il distacco irrita, tant’è ostentato, marchio di fabbrica di una vita border line, notti brave a Milano, le strade dello spaccio, i locali di viale Bligny, i Navigli sbarluccicanti e l’Oltrepo delle ville e delle Ferrari. «Anche lo zio ne aveva una»: sovente, le porte della mala si spalancano in famiglia. Anni prima, un’altra zia, la Rosa del Giambellino, aveva tirato su con gli stessi metodi il bel René: «Renato Vallanzasca. Mi pare che si conoscessero, lui e lo zio. Ma sono storie vecchie. Per 22 anni ho vissuto la vita sbagliata, al suo fianco. Lo seguivo, lo veneravo, lo zio mi usava come palo, per portare messaggi, incontrare persone ricche e potenti». Ti prostituivi? «Mai». Droga? «Cocaina, a fiumi. Lo zio faceva affari tra la Calabria e la Croazia, a quanto ho capito». Secondo gli inquirenti, Barbara aveva capito ben più di quello che ha rivelato, quando si è presentata al commissariato vogherese per essere arrestata: «Non ce la facevo più a vivere di notte, a vestire Prada e Moschino, a bere, tirare di coca, tra pestaggi e intimidazioni contro chi non voleva pagare la roba. E io al mattino ero niente di niente: le mie compagne di classe, al solo vedermi, cambiavano marciapiede». La mano cerca lei: «La sento crescere e mi rendo conto di essere una donna diversa, voglio che lei lo sia, un giorno. Ho paura per lei, sono felice per lei e lavoro per lei. Faccio l’imbianchina, lavoro pesante, per una come me: perché Voghera non dimentica». Adesso Barbara va a Milano per imbiancare pareti e se entra in un night è per ristrutturarlo: «Ma i clienti appena sanno chi sono mi mandano via, dicono che non vogliono noie». Ha tentato di mettere a frutto il diploma di infermiera: solo porte chiuse. È tornata a vivere dai genitori. Giura di aver smesso con le piste ma intercetta il mio sguardo, che è poi il medesimo dei vogheresi. «Quando lo dico mi guardano tutti con il tuo scetticismo, ma gli esami del sangue non mentono: leggili anche tu, sono pulita». Tira fuori dalla borsa un mazzo di fogli stropicciati, le stesse analisi che ha mostrato ai responsabili dell’Associazione Giovanni XXIII: «Loro non mi hanno giudicata, mi hanno aiutata ad avere coraggio. Vivo del mio lavoro, cercavo solo qualcuno che mi dicesse che faccio bene a tenerlo, questo figlio». L’ecografo dice femmina: «la chiamerò Carol» precisa di getto e tu pensi alla faccia che farà il parroco; pensi che potrà sempre mimetizzarsi tra le tante Carolina di queste campagne; pensi che comunque nell’Italia delle Noemi poteva andarle anche peggio. Anche nel nome, però, c’è un indizio di questa rinascita. «La chiamerò Carol – m’illumina Barbara – perché se era un maschietto si sarebbe chiamato Giovanni Paolo». Finalmente trovo il coraggio di metterle sotto gli occhi una foto di don Benzi: «Crediamo nello stesso Dio, non dico di essere stata una buona cristiana ma so di volere il meglio per la mia bambina e per il nostro futuro. Ho chiesto aiuto al Signore nei momenti peggiori, anche quel mattino, e quest’aiuto è arrivato». Quel mattino erano in due e sono entrati in casa con lo spaccadenti tra le dita. Il ricordo strizza gli occhi: «Mi hanno detto "vai a raccontare anche questo". Con il tempo ho dimenticato il dolore fisico. Del resto, non posso mica passare tutta la vita a odiare quei due». Del resto, uno degli stupratori è sparito nel nulla.«Il mio incubo peggiore – confida – è la vita che ho sprecato. Non cerco alibi, è avvenuto anche per volontà mia. Ho iniziato a lavorare per lo zio che avevo sei anni: è entrato nella mia cameretta, mi ha messo una valigia sotto il letto e mi ha detto: non alzarti neanche per fare pipì. Andandosene, mi ha lasciato una mancia di cinquantamila lire: era il 1982, giocavo ancora con le bambole. Poche settimane prima di morire, mi ha chiesto scusa di ciò che aveva fatto di me. Non so se sono riuscita a perdonarlo».A trentatre anni, Barbara è una donna che rinasce scegliendo di dare la vita. Inquieta e incerta, sola contro tutti, assistita dalla Papa Giovanni e protetta da quei genitori ai quali aveva voltato le spalle. «Ho voluto raccontare questa storia perché so cosa sia la violenza e forse posso convincere qualche donna incinta, indecisa e stordita dalla paura, che si può credere nella vita anche quando il passato ti assedia. Ne ho parlato con un amico che fa il prete e ho deciso di raccontare la mia storia a Natale, perchè è oggi che rinasce la speranza. La mia è che il passato sia veramente passato». Per strapparselo via, tutto quel suo passato pesante, Barbara ha dovuto implorare i poliziotti, ha rivelato dove si trovava la roba ed è quasi impazzita di fronte ai loro sguardi increduli. «La prima volta è stata cacciata in malo modo. È tornata all’indomani e pian piano si è conquistata la loro fiducia» spiega oggi Maurizio Sorisi, l’avvocato che l’ha assistita per anni. Fu sua una delle prime istanze di ricusazione di un giudice in base alla legge Cirami: «Era appena entrata in vigore la legge - ricostruisce - e abbiamo scoperto che la possibilità di ricusazione era molto più restrittiva, tant’è che la Cassazione ce l’ha negata». Nell’estate del ’99 Barbara si è trovata ad essere la principale confidente degli inquirenti nell’operazione Intreccio: decine di inquisiti, altrettante condanne, un giro di coca e complicità su cui la stampa locale ha versato fiumi d’inchiostro. Si sa, alla casalinga di Voghera certe storie torbide piacciono alquanto. Che poi a vuotare il sacco fosse una delle regine delle notti dell’Oltrepo bastava a far tremare la buona società delle cascine e degli studi professionali, quella dello shopping da Melchionni e del crodino in piazza Duomo... «Racconterò tutto a mia figlia - giura -, senza tacere nulla e il racconto finirà con l’assoluzione, perché alla fine il giudice mi ha assolto». A non essersi assolta è lei: «Negli anni in cui facevo quella vita - racconta - un mio amico fu stroncato da un’overdose. Ho la sensazione di averlo ucciso anch’io. Ma alla mia bimba insegnerò che, se ci tieni davvero, puoi cambiare». Lo sguardo è diventato quello di una mamma.
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