venerdì 31 dicembre 2021
Parla l’ex parlamentare e ministro dc: «I partiti si assumano le loro responsabilità, non può essere Draghi a risolvere i problemi. Con una rottura sul Colle il premier costretto ad andarsene»
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«La politica deve assumersi le sue responsabilità, ma siamo in ritardo. Non si può pensare che sia Draghi a risolvere i problemi. Senza una maggioranza, con una rottura sull’elezione del capo dello Stato, non ci si illuda che resti dov’è, sarebbe comunque costretto a dimettersi ». Guido Bodrato parla da parlamentare dc di lungo corso (eletto poi a Strasburgo, nel 1999, con oltre 40mila preferenze) e al tempo stesso con il distacco di chi ha lasciato la politica attiva da 15 anni e non si ritrova più in nessun partito, neppure nel Pd che continua a votare. Più volte ministro della Pubblica istruzione, poi del Bilancio. Fu vicesegretario della Dc con De Mita e poi con Forlani, ai tempi in cui i ministri della sinistra Dc, fra cui Sergio Mattarella, si dimisero dal governo Andreotti in disaccordo sulla legge Mammì che intervenne sul sistema radio-tv. Rientrò al governo proprio con Andreotti, da ministro dell’Industria. Ne ha viste tante: fu anche commissario della Dc a Milano durante Tangentopoli, e dopo il dissolvimento dei vecchi partiti aderì al Ppi. Con l’attuale capo dello Stato ha in comune, oltre alla militanza nella Dc e poi nel Partito popolare, anche l’esser stato direttore politico del Popolo, dal 1995 al 1999, qualche anno dopo Mattarella. Che resta uno dei pochi punti di riferimento per lui, in una politica malata di «personalismo », che, anzi, «non c’è più, dopo che i partiti sono stati sostituiti dai social». Strumento che Bodrato, a 88 anni, da bisnonno (12 nipoti e un pronipote) prova anche a frequentare, attraverso Twitter, piattaforma sulla quale conta la ragguardevole cifra di 4.075 followers. «Dedico qualche minuto al giorno, senza entrare in polemica. Più che altro commento cose dette da altri, su temi di politica, malattia da cui è difficile guarire».

Ma che politica è questa?

Il suffragio universale è difficile da tenere in piedi senza delle vere forze politiche, con delle regole condivise, una cultura e un programma. Ci si è illusi che la soluzione fosse la personalizzazione della politica, poi questa ha aperto la strada al populismo. Andare al voto senza confronto, certo, è meglio della dittatura, ma non si può parlare di vera democrazia. La democrazia non è solo la legge dei numeri.

Tuttavia, saranno questi leader a decidere i prossimi passi, decisivi per il futuro del Paese. Si può ancora sperare?

Spes ultima dea, come si dice. Un passaggio come l’elezione del presidente della Repubblica rimette in discussione tutto, speriamo che le forze politiche sappiano cogliere l’occasione.

Le parole di Draghi sul suo futuro hanno suscitato reazioni di segno diverso.

Mi è parsa una risposta saggia, la sua. Se i partiti sapranno dare una soluzione alla crisi della democrazia che ha richiesto la sua disponibilità all’appello di Mattarella (con risultati molto buoni peraltro) lui resta al servizio delle istituzioni. Ma una fase eccezionale non può durare in eterno.

Non vede una continuità possibile, anche sull’onda degli eventi?

Non lo darei per scontato, Draghi l’ha fatto intendere chiaramente, ricordando che serve una maggioranza. Tutte le forze politiche dovrebbero riflettere e darsi una strategia, adeguata ai tempi.

Che cosa insegna questa pandemia?

Ci ricorda, appunto, che abbiamo una responsabilità comune, che la mia salute non è importante solo per me, ma anche per tutelare quella degli altri.

Mattarella alla luce della nuova emergenza potrebbe ancora ripensarci, e accettare una riconferma, se glielo chiedessero?

Sarebbe l’ennesimo caso di personalismo. Lo ha escluso, portando da giurista anche argomenti di diritto costituzionale. Dopo essersi sostituito ai partiti, chiedendo di sostenere un governo di emergenza, ora li spinge, al pari di Draghi, ad andare oltre.

I leader nei prossimi giorni dovranno per forza parlarsi...

Parleranno fra di loro, ma mi chiedo chi è che si confronta con l’opinione pubblica. Senza i partiti, si rischia che il vuoto della politica venga riempito dalle corporazioni.

Conosce Draghi?

Lo conosco da tempo, sin da quando era un giovane dirigente del Tesoro molto stimato. Ma il problema non è dove va lui. Se anche gli si chiedesse di restare dov’è, una volta eletto il capo dello Stato dovrebbe rassegnare le dimissioni, per consentire al nuovo presidente di indicare una personalità di sua fiducia. La politica non è un gioco a carte, in cui si elegge il presidente della Repubblica pescando il jolly. Una volta eletto, si rimette in discussione tutto. Il problema, ripeto, non è dove va Draghi, ma dove vanno le forze politiche.

Da uomo del Nord, in particolare come vede la Lega?

La destra sembra unita, ma non lo è. La Lega deve decidere quale politica fare. Se sceglie la destra è destinata a dissolversi. Ma quando sento parlare Giorgetti o Zaia, penso che più che un partito di destra, la Lega rappresenti la continuazione dei dorotei, che erano la destra della Dc, ma non erano certo di destra: avevano un grande interesse al potere nelle sue rappresentanze territoriali, davano priorità, più che altro, alle tematiche del lavoro e agli interessi produttivi.

Anche Letta è un ex democristiano, in fondo...

Ma purtroppo anche il Pd è malato di personalismo, se uno dopo l’altro tanti ex leader ne sono usciti: Rutelli, Renzi, D’Alema, Bersani... Lo stesso Letta era andato via ed è tornato. Anche il Pd deve decidere che cosa vuole essere.

Che cosa consiglia ai partiti, allora?

Di andare oltre i personalismi, come richiedono i tempi difficili, e guardare al bene comune. Senza una radice etica degradano verso la pura gestione del potere, e in breve tempo perdono autorevolezza e consenso. Basti vedere la parabola veloce che caratterizza gli attuali leader.

E se non riuscirà questo salto di qualità?

Si andrà al voto, e ne uscirà una maggioranza. Oppure si tornerà al voto ancora, come già accaduto in alcuni Paesi.

Ma ora sarebbe una sciagura...

Sarebbe un salto nel buio. Ma inevitabile, senza un’assunzione collettiva di responsabilità. Se sul capo dello Stato salta la maggioranza questo per forza di cose avrà conseguenze anche sul governo.

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