venerdì 25 novembre 2022
Viaggio nella rete degli interventi con le operatrici D.i.Re. Le denunce sono ancora poche, ma il 70% delle vittime che si rivolgono a un centro riesce a ricostruirsi una vita
Femminicidi, ecco le donne salvate e cosa serve per superare la violenza
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Se la parola femminicidi fosse l’unica, e l’ultima, in questo 25 novembre di lotta alla violenza di genere, per le donne non ci sarebbe di che sperare. Invece, per ognuno dei 104 nomi che da ieri sera vengono proiettati sulla facciata tinta di rosso di Palazzo Chigi («Sono quelli delle donne uccise nel corso dell’ultimo anno» ha ricordato la premier Giorgia Meloni), ci sono le migliaia di chi la battaglia contro la violenza alla fine l’ha vinta. Dimenticati – perché nel nostro Paese troppe cose ancora non funzionano nel percorso di sacrosanta presa in carico e tutela delle donne, ed è più facile (oltre che giusto) elencare quello che non va – eppure reali, scritti nella storia fatta di carne e ossa che ogni giorno viene scritta nei centri antiviolenza che da Nord a Sud accolgono le vittime, con la sfida enorme di provare a salvarle.

Arrivarci, intendiamoci, è già un traguardo. Non solo perché i centri sono ancora troppo pochi: appena 350 secondo i dati snocciolati proprio ieri da Confcooperative, oltre a 366 case rifugio, in barba a quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul che ne richede 1 ogni 10mila abitani, quindi 6mila. Riconoscere la necessità di essere aiutate, e ascoltate, superare la paura e la vergogna, essere più forti di un partner spesso manipolatore oltre che violento, è il primo grande scoglio che ogni donna deve superare per provare a riscattarsi. Ed è proprio questo il momento cruciale di ogni percorso virtuoso: nei centri, per fortuna quasi sempre, si incontrano persone preparate, capaci di intercettare subito i bisogni della donna e di supportarla. «Contiamo su operatrici formate e competenti – spiega Nadia Somma, consigliera nazionale della rete D.i.Re, oltre 80 organizzazioni che gestiscono un centinaio di centri antiviolenza, per un totale di 21mila donne accolte ogni anno –, le vittime vengono accompagnate in un percorso di ascolto e di presa di consapevolezza sempre rispettoso della loro volontà, che viene messa al centro».

Significa, per esempio, non costringerle a mediare col fidanzato o marito che le picchiava, o a denunciarlo se hanno paura di farlo: «La denuncia può essere necessaria, ma non è sufficiente. Alla donna – continua Somma – serve prima di tutto non sentirsi più sola, poi tutelata. Infine, ed è sicuramente il nostro auspicio, quando la vittima è pronta si può passare alla denuncia». Succede nel 27% dei casi: ancora troppo pochi, perché sul piatto del coraggio e del desiderio di libertà vanno messi i figli («che spesso la donne hanno paura di perdere»), la casa («quelle rifugio, così utili e fondamentali, non sono certo luoghi di vacanza»), il lavoro («che si rischia di perdere»). Eppure davanti alle autorità si arriva, seppur con fatica, avviando percorsi che nei casi più gravi portano alle misure cautelari necessarie a una donna per ricominciare a vivere, a partire dall’allontanamento del maltrattante.

Nelle storie di chi ce la fa – nel centro in cui lavora Nadia Somma, a Lugo, oltre il 70% dell’utenza – c’è poi il lavoro in rete, ovvero una collaborazione che funziona tra attori istituzionali diversi: «Servono anche forze dell’ordine preparate, capaci di raccogliere una denuncia in modo completo, capendo che a una donna vittima di violenze serve tempo anche per raccontarle». E poi giudici dei tribunali e dei tribunali del minori, operatori dei Servizi sociali, persino medici: quando la formazione sulla violenza di genere (corsi ormai avviati e disponibili ad ogni livello) coinvolge tutta la catena delle istituzioni chiamate a intervenire, o almeno una buona parte, la donna vive il percorso di uscita dalla violenza in modo più semplice: «Ed è una rete necessaria anche dopo – continua Somma –. Perché la casa rifugio è solo l’inizio, poi servono percorsi di reinserimento lavorativo, corsi di italiano per le straniere, autonomia abitativa».

Facile? «No, faticosissimo – mette in chiaro Cristina Carelli, coordinatrice generale della Casa di accoglienza della donne maltrattate di Milano –, ma alle donne ripetiamo che si può e si deve fare, che ne vale la pena. Nella violenza la fatica era quella della sopravvivenza, questa fatica è invece per la loro libertà ed autonomia». I percorsi, infatti, danno una prospettiva di vita lontano dagli abusi: «Vediamo donne che riescono a valorizzare per la prima volta i loro talenti e le loro competenze, che migliorano la propria posizione lavorativa e alla fine trovano soluzioni abitative autonome per sé e per i propri figli» continua Carelli.

La violenza infatti è anche la paralisi di un’esistenza: una gabbia che finisce con l’isolare una donna e privarla di ogni aspirazione, oltre che della dignità. «E uscire dalla violenza significa ricostruirsi una vita, spesso assieme a quella dei propri figli». Per alcune donne servono percorsi lunghi, «alcune vengono seguite dal nostro centro anche due o tre anni. Qualcuna non ce la fa. Ma mi sento di dire che la scelta di affrontare la violenza, rivolgendosi a un centro, porta nella maggior parte dei casi a risultati». Il femminicidio è la rappresentazione di tutto ciò che non ha funzionato nel percorso di presa in carico di una donna: le storie delle vittime portano con sé sottovalutazioni ed errori spesso imperdonabili da parte delle istituzioni. «Nei centri lavoriamo al contrario: questo è lo spazio in cui ricostruirsi e non restare più sole». Si può fare, succede. E se succede basta, a ogni donna, per continuare a sperare.

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