mercoledì 26 aprile 2023
Guido Formigoni, ordinario di storia contemporanea all'università Iulm di Milano, studioso di Moro: la destra si affida a un generico anti-totalitarismo perché deve ancora superare l’erededità del Msi
 «Prescindere dalla lotta al fascismo è banalizzare la Liberazione»
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Ridurre la Festa della Liberazione ai concetti di patriottismo e libertà dai totalitarismi «è un tentativo di banalizzare la rottura tra fascismo e antifascismo, fondamento costituzionale della Repubblica». Per Guido Formigoni, docente di Storia contemporanea all’Università Iulm di Milano, studioso di Aldo Moro e del cattolicesimo democratico, la destra italiana fatica ancora a fare propri valori che in Italia dovrebbero essere alla base della democrazia.

Il 25 aprile è percepito da alcuni ancora come un momento divisivo. Perché l’antifascismo in Italia non è un valore condiviso da tutti i democratici?

Credo che il discorso della pacificazione sia stato impostato in modo sbagliato: "mettiamo una pietra sopra alle differenze tra fascismo e antifascismo", in nome di una sorta di patriottismo e di identità nazionale che superasse tutto. La pacificazione può venire solo se tutti accettano che si può discutere intorno alle ideologie e ai progetti, a patto che lo si faccia all’interno di un quadro democratico e costituzionale che è solo l’antifascismo ad avere costruito in Italia. Esattamente contro il regime fascista.

Allora paradossalmente il 25 aprile non può non essere divisivo?

Beh, se c’è qualcuno che ancora non ha fatto questa acquisizione, certamente resterà divisivo. Rimproverare all’antifascismo di essere divisivo è rovesciare il problema. Dovrebbe essere il contrario, cioè il riconoscere un terreno comune che è quello democratico e costituzionale che permette di non dividersi almeno sulle grandi scelet. Poi della democrazia fa parte il conflitto, il dialogo, il compromesso, la convivenza. Prima però ci vuole quel riconoscimento.

A parte nostalgici e eredi del fascismo, in Italia c’è una parte dei moderati che non ha gradito il tentativo del Pci di monopolizzare la Resistenza, sottovalutando il contributo alla Liberazione dei cattolici, tra gli altri.

Sì, ci sono stati momenti in cui la memoria della Resistenza è stata vissuta in modo diverso. Qualche volta ha potuto essere rafforzata un’identità tra Resistenza e comunismo semplicemente perché le altre componenti della Resistenza avevano perso un po' la voglia di rivendicare la propria presenza e il proprio contributo. Anche nel mondo cattolico c’è stata una sottovalutazione per lunghi anni.

Intende dire che non è stato solo il Pci a mettere il cappello sulla Resistenza, ma è stata anche la Dc a metterla da parte?

Vuole un aneddoto? Nel 1946, al primo congresso democristiano, ci fu una relazione di Enrico Mattei, ex-partigiano, sul contributo anche militare dei cattolici alla Resistenza. Quella relazione non venne stampata negli atti del convegno, si preferì tenerla in secondo piano. Dal punto di vista della consapevolezza storiografica e culturale questo atteggiamento è stato ampiamento superato, oggi non c’è nessuno che nega il carattere pluralistico della Resistenza. Ci sono stati grandi studi sull’elemento non solo ideologico ma anche morale, sulla difficoltà individuale delle scelte, mai semplici. Resistenza in modalità armata e non armata. È riconosciuto ormai il contributo morale, ma anche armato, di una parte cospicua del mondo cattolico nella lotta antifascista. Non di tutti i cattolici, perché anche nella Repubblica di Salò c’era qualche prete che faceva il cappellano delle Brigate nere.

E nella Resistenza non armata dei cattolici – assieme ad altri - spicca la testimonianza preziosa nella Germania nazista della Rosa Bianca. Ma in Italia è mancata una destra antifascista? In Francia il leader della Resistenza è stato De Gaulle, un conservatore. Mentre la destra italiana è figlia di un ufficiale repubblichino, Giorgio Almirante, che sceglie per il suo partito, l’Msi, una sigla in assonanza con la Rsi.

Ci sono state nella storia della Repubblica anche altre destre, ma sicuramente tutte minoritarie. La particolarità italiana è stata l’operazione politica di De Gasperi che ha metabolizzato la destra dal ’47 in poi portandola a sostenere la Dc come perno del sistema occidentale e liberaldemocratico nel quadro della Guerra fredda. Lasciando poco spazio per le altre destre, liberali, monarchici, ma soprattutto i neofascisti del Msi.

Poi quando la Dc è scomparsa, il voto bianco del Veneto, ad esempio, è tornato in gran parte a destra confluendo nella Lega.

Esattamente. La Dc è stato un partito molto composito, con una straordinaria durata e flessibilità interna, che quando è crollato in modo rapido, parte della sua amalgama è finita a destra perché condivideva quei valori.

Se è comprensibile la nostalgia del Ventennio da parte di chi l’ha vissuto, più difficile è capire la fascinazione del fascismo sul ragazzi che negli anni ’70 contribuirono alla violenza politica, fino all’eversione e allo stragismo.

Le darei due risposte. La prima è che la vittoria dell’antifascismo e la realizzazione di una Repubblica democratica non ha cancellato come per incanto l’eredità del Regime. È rimasta in parte in ambienti di ceti medi conservatori o reazionari. E poi in gruppi giovanili che qualche volta – ed ecco la seconda risposta – coltivavano quel legame col Fascismo non più come regime storico, ma come una sorta di ideologia mitizzata, dei valori di élite, giovinezza, onore sconfitto, diversità dall’"omologazione quotidiana" della democrazia. Si sentivano in controtendenza coltivando questo mito, questo appiglio mitico che aveva poco a che fare con la realtà storica del Ventennio.

Il pecorso avviato da Gianfranco Fini con Alleanza Nazionale e la svolta di Fiuggi, che ha pagato personalmente, può vivere una nuova fase ora che il governo è guidato dalla leader di un partito erede della destra missina?

Mi sembra che le difficoltà siano piuttosto profonde. Lo si vede in parecchie uscite di esponenti in vista del partito, nei tentativi di banalizzare la rottura tra fascismo e antifascismo, di dare una rappresentazione fuorviante della Resistenza. C’è l’impressione che ci sia molto di più che un semplice dato biografico, ma un’orgogliosa rivendicazione di una cultura piuttosto lontana dai fondamenti costituzionali della Repubblica. Penso all’uscita infelice della premier Giorgia Meloni sulle vittime delle Fosse Ardeatine uccise «in quanto italiane». Con la richiesta di abbassare le polemiche e di fare del 25 aprile la festa della libertà ha dimostrato una certa abilità, rilanciando però questa idea di superare l’eredità del passato in una sorta di sintesi patriottica antitotalitaria, messa alla prova con i tratti fondanti della Costituzione.

Significa che c’è ancora strada da fare?

Fratelli d’Italia è stato votato dal 30% degli elettori, che sicuramente non sono tutti fascisti. Però queste uscite non sembrano “voci dal sen fuggite”, ma parte di una strategia tesa a delegittimare pian piano le radici antifasciste della democrazia, sostituendole con un vago richiamo al patriottismo, a loro molto più congeniale.







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