venerdì 21 ottobre 2022
Un seminario ha messo insieme esperienze di riconciliazione in realtà conflittuali come la Palestina, i Paesi Baschi e l’Irlanda del Nord. «Ora anche in Italia la strada è tracciata»
Il “laboratorio” per la pace c’è già: si chiama giustizia riparativa
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La giustizia riparativa diventa laboratorio di pace. Questa estate, a Sassari, si è tenuto un Forum europeo che ha coinvolto esperienze – da Belgio, Germania, Irlanda del Nord, Inghilterra, Scozia, Israele e Palestina, e Paesi Baschi - di superamento della violenza politica e della lotta armata. Successivamente in Università Cattolica a Milano, tra fine settembre e inizio ottobre, i testimoni di azioni violente agìte e subite – cioè responsabili e vittime –, accompagnati da mediatori e altri esperti di giustizia riparativa di vari Paesi d’Europa hanno dato vita a L’Incontro degli Incontri, un’esperienza aperta al pubblico e alle domande di tutti, nella convinzione che – un po’ come avvenuto per l’accordo per il Mozambico, di 30 anni fa – il percorso della giustizia riparativa, applicato su larga scala, introduca un metodo di pace “partecipata” in cui tutti, non solo diplomatici e governanti, possono dare un contributo. «Questo lavoro è solo all’inizio», spiega Claudia Mazzucato, professore associato di Diritto penale e Giustizia riparativa all’ Università Cattolica del Sacro Cuore e componente del Gruppo di lavoro sulla giustizia riparativa in attuazione della riforma approvata lo scorso anno su proposta della ministra Marta Cartabia.

Che cosa insegna la giustizia riparativa a chi cerca la pace e non sa come poter contribuire?

Insegna innanzitutto che ciascuno può fare il primo passo, nelle piccole e nelle grandi vicende. Insegna che, più gli altri ci sono “difficili” e nemici, più ogni passo verso di loro marca una differenza sorprendente e disarmante. Muovere passi impensabili, pericolosi e “costosi” incontro agli altri li chiama a un “esodo” da posizioni chiuse sulle proprie ragioni, e li (s)muove verso la terra del confronto, in cui è possibile scoprire che il dolore – espresso nel nostro caso in sette lingue diverse – ha, per citare Umberto Saba, «una voce».

Percorso non facile, né scontato. Il cosidetto “perdonismo” non c’entra.

Nella sua disarmante semplicità, la giustizia riparativa ha un prezzo: non è neutrale davanti alle ingiustizie, ma chiede a chi ha subito un male – sempre ingiusto – di non sentirsi migliore di chi lo ha inferto; a chi ha compiuto violenza di non sentirsi indegno dell’incontro che gli offre; a chi ha inneggiato alla violenza, senza compierla, o a chi è rimasto a guardare, di uscire dal proprio “sepolcro imbiancato”, sostenendo con la propria vicinanza i passi costosi e pericolosi altrui.

Nel governo Draghi alla Giustizia ha operato una ministra, Marta Cartabia, che crede molto in questa opportunità. Che prospettive si aprono ora?

La strada è già tracciata. Proprio nei giorni in cui la Cattolica ospitava i dialoghi dell’Incontro degli Incontri veniva approvata in via definitiva la riforma della giustizia penale che contiene anche una “disciplina organica” della giustizia riparativa in materia penale. Quest’ultima entra così a pieno titolo nell’ordinamento giuridico e sarà finalmente accessibile, con il sostegno della legge, a chiunque voglia muovere passi incontro agli altri difficili.

I vostri primi interlocutori sono i giovani, particolarmente esposti con i social al linguaggio di odio, ma anche meno vincolati allo stereotipo di una pena “vendicativa”, senza possibilità di riscatto, e più aperti alla pace.

Uno dei dialoghi pubblici è stato dedicato proprio a loro, i giovani: relatori, testimoni della violenza politica che ha fatto irruzione nelle loro vite, più di un centinaio di ragazzi provenienti a loro volta dal mondo intero (Ucraina, Sudafrica, Messico, Colombia, Italia, per citarne alcuni) e non di rado testimoni o vittime essi stessi di violenze. Hanno narrato con impressionante lucidità gli effetti della violenza, i lutti e i silenzi che la accompagnano, le fatiche insormontabili a farsi strada nella vita anche a causa dei pregiudizi tremendi dei benpensanti i quali fanno ricadere la colpa e la vittimizzazione dei padri e delle madri sui figli, trascinandoli nel circolo vizioso del male di generazione in generazione. I loro interventi hanno rappresentato un vero e proprio “inno” alla pace, senza sconti sulla sua necessità e urgenza. Un inno che chi ha il potere di fermare le guerre e le violenze dovrebbe essere costretto ad ascoltare.


Pubblichiamo qui di seguito la lettera commovente scritta da una delle ragazze che hanno partecipato al laboratorio.

Ci sono parole che scivolano, come gocce di pioggia, sul finestrino di un treno, in un venerdì sera come tanti. Ci sono parole che rimangono, parole che pesano, che segnano e disegnano i contorni di una storia, della storia di ciascuno. Poi ci sono le parole ricorrenti, quelle che ritornano, sempre, quasi ci tormentassero. E ci tormentano. Una tra queste è la parola coincidenza, spesso nient’altro che uno squallido alibi, giacché l’uomo sa essere un essere vile: “Non volevo, è stato un caso. Quell’uomo non doveva essere in quel luogo, in quel momento. È stata una tragica fatalità”. Ma, come si muore per coincidenza – perché, si sa, le bombe cadono sempre sopra qualcuno e le pallottole non si fermano mai nell’aria – si può anche sopravvivere per coincidenza e iniziare così, lentamente, giorno dopo giorno, a scontare una pena sorda e silenziosa, incomunicabile: "Sono vivo per caso, mentre gli altri… Gli altri non ce l’hanno fatta." È la sorte dei papaveri che crescono lungo le ferrovie. Non vengono falciati dai convogli in corsa per pochi centimetri. E tu li vedi lì, i sopravvissuti, fragili, mossi solo da una leggera brezza, quasi consapevoli di essere scampati a quel treno per un soffio, un soffio di vita. Tuttavia, qualcuno potrebbe, giustamente, obiettare: non esiste coincidenza quando premo un grilletto, quando sgancio una bomba e gli uomini non sono papaveri.

C’è sempre un’alternativa, ma le vittime questo non sempre lo sanno e, se lo sanno, possono facilmente dimenticarlo, perché le maglie della rete che le imprigiona si fanno sempre più strette: un senso di colpa soffocante, che finisce per eclissare il loro stesso diritto ad essere vittime. Ma allora, come reagire? Come sciogliere le membra intorpidite dall’immutabilità della coincidenza? Basta guardare questa sala gremita di donne e uomini da tutto il mondo. Nessuno parla la lingua dell’altro eppure, dice Robi Damelin: “Le nostre lacrime hanno lo stesso colore”. Lacrime che ora irrigano campi di pace, laddove un tempo scorreva solo sangue. Perché la violenza può essere il risultato di una coincidenza, ma una risposta non violenta è sempre frutto di una scelta, la scelta di "non restituire il colpo", di tradire, se necessario, le proprie origini, se quelle origini ci allontanano dai nostri principi. Quale, dunque, il compito dei superstiti? Il racconto, certo, la testimonianza, elementi imprescindibili. Ma una volta raccolti e riordinati i cocci della nostra esistenza, bisogna passare alla ricostruzione, o meglio al restauro delle nostre vite. Ma, se ciò avviene, nuovamente, secondo i consueti canoni della retribuzione, siamo, fin da subito, destinati ad un altro imminente crollo.

Ecco allora che ci sediamo in cerchio, che rompiamo gli schieramenti e gli schemi a cui siamo abituati, che ci lasciamo rapire dagli “occhi dell’altro” ed entriamo in una spirale di ascolto reciproco. Perché se vogliamo risposte diverse non possiamo continuare a porci le solite domande. È scritto in ogni abbraccio, in ogni sguardo, in ogni relazione nata dalle circostanze più improbabili: la giustizia riparativa è un’occasione unica, se non l’unica occasione, per rispondere ad una disumana coincidenza con la scelta di un incontro tra uomini.... Convinti che il male può avere artigli da cui è difficile divincolarsi, ma solo il bene ha radici.



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