lunedì 30 marzo 2015
Il premier aveva chiesto «un voto per il governo», poi di legge elettorale non si parlerà più. La direzione approva all'unanimità, la minoranza accusa il colpo.
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La spunta, Matteo Renzi. L’"Italicum 2.0" va avanti per la sua strada, secondo l’agenda fissata. Il Pd non si spacca, ma la minoranza si riserva ancora un margine di discussione in Parlamento, nel gruppo della Camera. E per questo preferisce non partecipare al voto che il segretario chiede in quella che vuole sia «l’ultima direzione sulla legge elettorale», per avere una linea di tutto il partito, che consenta un voto unanime in aula. E però il premier l’unanimità la ottiene solo in un parlamentino di fatto diviso, dove le posizioni si rivelano ben lontane. E sul quale - ancora una volta - il capo del governo sembra passare senza alcuno scrupolo. Tanto che la relazione su cui si esprime il voto finale parte da molto lontano, dalla fine del governo-Letta, e vuole essere il tentativo di Renzi di scrollarsi di dosso una volta per tutte l’immagine del traditore, e legittimare un governo che – dice – era l’unica risposta di fronte allo stallo in cui si era impantanato il Paese. Ma per rendere concreta la legittimazione bisogna approvare la legge elettorale, è la tesi renziana. O meglio, una riforma che «tolga l’alibi ai politici» chiamati poi a governare. E allora, per poter mettere in atto la sua agenda, l’Italicum diventa propedeutico e non più emendabile. Il premier non è affatto tenero con la sinistra che rappresenta la vera opposizione al suo lavoro. Ironico, sarcastico e soprattutto determinato, Renzi la spunta e ripete che «entro il 27 aprile» la legge sarà «in aula e a maggio dobbiamo mettere la parola fine: è giunto il momento di decidere, sono contrario a ritoccare il testo». Decidere, allora, diventa la parola chiave di una direzione in cui la sinistra si ritrova spiazzata, tra il timore di elezioni anticipate che la condannerebbero all’estinzione e la paura di dover guardare a Landini come all’ancora di salvezza. «Non c’è la dittatura o la "democratura", come qualcuno ha avuto il coraggio di dire, nel modello che portiamo avanti», spiega Renzi. Si tratta invece di «democrazia decidente», senza «blocchi e veti» ma con «pesi e contrappesi». Il leader del Pd ripercorre le tappe e i voti unanimi sull’"Italicum 1.0", riveduto e corretto sulle indicazioni della sinistra dem, per spiegare ancora una volta nel dettaglio cifre e percentuali degli effetti che produrrebbe al voto di Montecitorio. «Sostenere che in democrazia non debba esserci chi decide è pericoloso, è un concetto più anarchico che democratico». Decidere «non è una parola fascista». Ora, «il punto chiave di tutta la riforma elettorale è il ballottaggio, perché permette di avere un vincitore o meno». Insomma, Renzi non vede motivi se non strumentali di tanta opposizione. E a quella sinistra che tanto si oppone dai tempi della staffetta con il governo Letta, replica di non voler lasciare «il monopolio della parola sinistra» solo perché «la usa con più frequenza». È un attacco rivolto a Bersani e Cuperlo, ma anche a chi incombe dall’esterno: la coalizione di Landini. Al leader della Fiom concede lo stesso trattamento che a Matteo Salvini: due «soprammobili da talk show che perdono il contatto con la realtà». Di certo la coalizione «non mi toglie il sonno». Così come non glielo toglie Grillo, un tempo «spauracchio» per il Pd. Così a chi gli chiede di «fare sintesi» e non proporre «aut aut» sull’Italicum, il premier dice basta «ritoccare» il testo e approvare in via definitiva la legge elettorale, perché è in gioco «la dignità e qualità del governo» e la «credibilità dell’Italia». Di fronte alla prova di forza la sinistra arretra. Il «dialogante» Roberto Speranza, mette «a disposizione» anche il suo «ruolo» di capogruppo e fa un ultimo appello a «utilizzare ogni margine» per non «perdere un pezzo di Pd».
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