martedì 31 gennaio 2012
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Ci sono ferite che non guariscono mai.. Come perdere un figlio in mare o nel deserto durante una traversata della speranza o una fuga senza fiato da una guerra. Subire o assistere a stupri di gruppo, nei quali la vittima è tua sorella, tua madre o tua moglie. Oppure venire picchiati e torturati per giorni a causa delle proprie idee politiche e delle proprie convinzioni religiose. Per metà della popolazione mondiale che, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati, vive sotto governi che praticano la tortura, si tratta di eventi che hanno buone probabilità di tramutarsi in esperienze reali. Le conseguenze per la psiche dei sopravvissuti sono devastanti, anche se trovano rifugio in un Paese straniero e lontano, dove ricominciare da zero. Fanno uno sforzo doppio per riuscire a integrarsi. L’Italia, per una volta all’avanguardia nell’Ue, è uno dei pochi Stati comunitari dove queste ferite si provano a curare davvero.Almeno due-tre rifugiati su dieci, in base alle stime internazionali, hanno subito esperienze di tortura o violenza estrema. Quindi, si può stimare che nella Penisola, dove nel solo 2010 sono state esaminate dalle commissioni territoriali circa 12mila richieste d’asilo e ne sono state accettate circa 7.500, siano stati accolti tra i 1.500 e i 2.200 sopravvissuti alla tortura. Se poi allarghiamo lo sguardo agli ultimi 20 anni, il nostro Paese ha concesso asilo a circa 47 mila persone. A conti fatti, dunque, ci sono almeno 7-8000 persone che hanno "ricominciato a vivere" nelle nostre comunità e, negli ultimi anni, con un’attenzione e una competenza speciale.Sono dieci gli ambulatori pubblici sul territorio nazionale dove si provano a curare le ferite che non si rimarginano della tortura e della persecuzione. In silenzio, come spesso succede alle eccellenze del Belpaese, è sorta infatti negli ultimi cinque anni un’efficace rete integrata di centri medico-psicologici ospedalieri del Servizio sanitario nazionale, specializzati nella cura e nella riabilitazione dei richiedenti asilo vittime di tortura e violenza estrema. Il progetto è nato nel 2007 ed è promosso e sostenuto dal Centro per le patologie post-traumatiche dell’Azienda ospedaliera San Giovanni-Addolorata di Roma, dal Consiglio italiano per i rifugiati, dall’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati e dal ministero dell’Interno. Il Centro di coordinamento nazionale di questo progetto, denominato Nirast (Network italiano per richiedenti asilo sopravvissuti a tortura), è l’ospedale romano San Giovanni-Addolorata. «Torture e abusi sessuali colpiscono molto più a fondo dei traumi di altra origine – spiega Massimo Germani, psichiatra-psicoanalista e direttore del Centro –, la differenza sta proprio nella natura del trauma, che incide sulle strutture profonde della psiche».Tutto è cominciato nel 2005, quando il Parlamento italiano ha recepito una direttiva europea sugli standard minimi di accoglienza dei richiedenti asilo che raccomanda trattamenti specialistici e sofisticati da parte dei Paesi che ricevono profughi altamente vulnerabili. Non tutti i partner Ue hanno messo in atto la direttiva, ennesima prova che i 27 sul tema dei rifugiati marciano in ordine sparso. Finora ci fanno compagnia solo Danimarca, Svezia, Germania e Regno Unito. Mancano all’appello, ad esempio, una grande nazione come la Francia, l’opulento terzetto Belgio-Olanda-Lussemburgo e le mete delle recenti migrazioni di massa dall’Africa e dall’Asia: Grecia, Spagna e Portogallo. Così, sui circa 400mila rifugiati che in Europa hanno subito torture, solo 20.000 – uno su 20 – hanno potuto accedere a cure adeguate presso centri specializzati. L’Italia, con i 10 centri di Milano, Torino, Gorizia, Caserta, Foggia, Bari, Crotone, Siracusa, Trapani, e Roma è guardata a buon diritto come esempio di "buone pratiche" nel Vecchio continente. I dati inediti appena pubblicati nel Report Nirast 2011 (consultabili nel sito ufficiale www.nirast.it) rivelano che, nell’ultimo anno, l’ondata causata dalla primavera nordafricana ha fatto addirittura raddoppiare i casi presi in carico: sono stati 559, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Sempre nel 2011 sono state effettuate 3589 visite, quasi il triplo rispetto al 2010. Da dove provengono questi migranti? L’anno scorso nei 10 ambulatori specialistici il 15% dei pazienti risultavano curdi, il 12 nigeriani, l’11 burkinabé e il 9% ivoriani. Otto su dieci erano maschi, età media 28 anni. L’anno precedente prevalevano profughi dall’Afghanistan, ancora quelli da Kurdistan, Nigeria, Costa d’Avorio e dall’Eritrea.Ai centri medico psicologici arrivano, inviati da organizzazioni umanitarie persone cui occorre fornire adeguate misure sanitarie e sociali di tipo psicologico, psichiatrico e internistico, con un approccio multidisciplinare e etnoculturale. Le diagnosi servono non solo a curare, ma a cambiare la vita di una persona, perché esse dimostrano la necessità di avere protezione umanitaria o asilo, e devono disegnare percorsi specifici di riabilitazione. I medici impegnati nelle 10 equipe del Nirast sono 49, gli psicologi 37 e 20 altre figure professionali come assistenti sociali, antropologi e fisioterapisti. L’ambulatorio romano del San Giovanni è stata la prima struttura pubblica in Italia a garantire cure e terapie specifiche e innovative per i sopravvissuti a tortura e violenze. Nel 2011 vi sono state effettuate 1.240 visite mediche, sono stati presi in carico 206 nuovi pazienti, eseguite 974 valutazioni specifiche e redatte oltre 260 certificazioni finalizzate al giudizio sul riconoscimento della protezione internazionale. Attualmente vi sono circa 200 persone in trattamento regolare e continuativo.Eppure, la sopravvivenza di questo centro d’eccellenza viene messa a rischio dai tagli di bilancio della sanità. E se davvero verrà chiusa la struttura principale del Nirast, mentre le vittime di tortura sono in aumento, potrebbero derivarne gravi conseguenze sulle condizioni di salute dei pazienti in trattamento e rispetto agli enti e ai centri di accoglienza del privato sociale che inviano i migranti. Ci sono ferite che non si cicatrizzano, però in questi ultimi anni questi operatori italiani hanno fatto il loro dovere per ridare speranza a centinaia di persone che hanno sofferto l’indicibile. Del loro lavoro un Paese civile non deve fare a meno.
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