sabato 4 giugno 2022
Gianni Bozzacchi, romano, racconta il suo rapporto con la fotografia e con i personaggi che ha incontrato. Una mostra con 80 scatti lo celebra a Spilimbergo per "Le Giornate della luce".
La locandina della mostra

La locandina della mostra

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Incontrare Gianni Bozzacchi è, per un appassionato della settima arte, come salire su una giostra del luna park. È ascoltare i racconti di una vita avventurosa, è fare un viaggio nel periodo ruggente del cinema, nel cuore tra la fine degli anni ’60 e i ’70 da cui tutt’oggi sembra uscito questo personaggio, all’epoca uno dei maggiori fotografi. I suoi racconti sono un tuffo in quell’era, fra aneddoti incredibili e qualche scazzottata, aggirandosi fra ville e studi dei cineasti più famosi. È la storia unica di un figlio della piccola borghesia romana ritrovatosi a divenire il «fotografo personale», come precisa, di una star assoluta come Elizabeth Taylor, che di lui disse: «Riesce sempre a catturare l’anima nelle sue fotografie». E poi “ritiratosi”, in una seconda vita, a fare il produttore e altro. Oggi, a 79 anni splendidamente portati (e 4 figli alle spalle), un’ancora folta capigliatura rossastra, Bozzacchi dice di avere ancora tanti progetti in testa, a partire dalla mostra fotografica che, superando la sua ritrosia, egli stesso inaugura oggi, 4 giugno, a Palazzo Tadea a Spilimbergo, dal titolo “Memorie Exposte”: un’ottantina di scatti selezionati, a cura di Alvise Rampini, che saranno esposti fino al 26 giugno nell’ambito dell’ottava edizione del festival “Le Giornate della Luce”, ideato da Gloria De Antoni. Sullo sfondo, gli altri progetti, alcuni forse utopici: come il film su Enzo Ferrari di cui si parla da almeno 7 anni, idea sviluppata insieme a Robert De Niro che dovrebbe interpretare il costruttore. «Quando lesse il soggetto mi disse subito: "Con questo voglio vincere l’Oscar" – racconta Bozzacchi sfogliando il suo volume “My life in focus” -. Siamo arrivati alla sceneggiatura numero 26, avevo coinvolto grandi nomi come Christopher Wilkinson e Stephen Rivele, sceneggiatori di “Nixon” e “Alì”, ma il racconto mancava d’italianità. A partire dalla sua storia con Fiamma Breschi, ex compagna del pilota Musso e suo grande amore, a cui Ferrari scrisse nel tempo ben 700 lettere in inchiostro viola. Pochi sanno che si deve a lei il colore giallo per alcuni modelli, quando Ferrari le aveva chiesto di inventare qualcosa per rendere le sue vetture più appetibili anche alle donne. Ma lo faremo il film!».

Bozzacchi, come nasce fotografo?

Sono un figlio della guerra, eravamo 4 figli. La passione è di famiglia. Fotografo era mio padre Bruno, che lavorava all’Istituto di patologia del libro. Egli cercò di trasmettere quel mestiere a me e a mio fratello. Io all’inizio non volevo. Un giorno però uscii lo stesso con la macchinetta di mio padre e il caso volle che mi imbattei in Anna Magnani. La foto venne male, però capii che quello poteva divenire un mestiere anche per me, con lo scopo di entrare nel magico mondo del cinema.

Da qui a essere fotografo di una diva come Liz Taylor, il passaggio però non è automatico?

Anche qui conta il caso. Lavoravo, con scarsa soddisfazione, in un’agenzia fotografica. C’era da mandare uno in Africa, nel Dahomey – oggi è il Benin -, solo per collaborare a un servizio sul set di un film con lei e Richard Burton, il fotografo era un altro. Era una rogna, un viaggio scomodo di diversi giorni, allora mi proposi io. Arrivai lì, dove tutti parlavano solo inglese e francese e io non conoscevo una parola. Ma la fortuna – ancora lei - volle che lì ci fosse una ragazza che sapeva un po’ d’italiano, perché era della Corsica. Si chiamava Claudye e di Liz era la parrucchiera, anzi quasi una sorella. Sarebbe diventata mia moglie. Ci sposammo nel 1968, con Liz e Richard come testimoni di nozze.

Quale fu la sua prima macchina fotografica?

La mia prima vera macchina fu una Leica M2, me la regalò Liz. Ho scritto un libro con lei, “The Queen and I”, presentato a Los Angeles. Questa amicizia mi ha dato fama mondiale: ero come un ragazzino nel mondo del jet set, mi ha aperto tante porte in quel mondo, nelle grandi agenzie della moda e del cinema.

Quali sono i suoi “insegnamenti” fotografici?

Le donne devono essere accarezzate dalla luce, l’uomo invece va violentato, per così dire. Io non voglio foto statiche, ma più che con il movimento a me è sempre piaciuto giocare con la luce e le ombre: sono quelle che danno fascino e sostanza a una foto. Allora non c’era il photoshop, ma io ho appreso da papà l’arte del ritocco, sia del positivo sia del negativo. Oggi conta troppo il fattore manipolazione nella fotografia, non credo che possa più essere un’arte come lo era un tempo.

Fotografare Liz Taylor era difficile?

Voleva sempre che arrivassi sul set prima di lei, perché io sapevo esattamente di cosa aveva bisogno. Lei aveva qualche piccolo difetto: il naso un pochino storto, un po’ di sottomento, gambe non lunghissime. Io sapevo cosa fare per riprenderla al meglio. La donna più difficile da fotografare è quella perfetta, tipo Virna Lisi. Molto sensuale, però un po’ glaciale.

Liz e Burton litigavano davvero così spesso?

Lo sa? È la domanda che più mi è stata fatta nella vita. All’inizio rispondevo sempre “next”, prossima domanda. Finché un giorno risposi: «Non so, non ho passato molto tempo nella loro camera da letto». Liz approvò.

Com’era il suo rapporto con questi divi di Hollywood?

Vivevo con loro, facevo la loro vita, stavamo negli stessi hotel, i più sfarzosi, condividevamo tutto. Un giorno il truccatore era andato fuori di testa perché lei si lamentava di continuo e lui voleva assalirla con le forbici. Lo sistemai con un pugno, e Liz da allora mi chiamò con simpatia “gangster”.

Si sarà domandato perché, pur essendo una coppia, cercassero questo rapporto stretto con lei?

Forse perché gli facevo comodo: ero un po’ confidente, un po’ uomo di fiducia. Spesso a Londra andavo a recuperare Richard nei pub, quando non tornava a casa. Ecco, lui era uno che beveva molto, troppo, retaggio delle sue origini gallesi. Una volta, brillo, lo vidi litigare anche con Marlon Brando.

Scusi la domanda, ma c’è stata solo amicizia fra di voi?

Solo amicizia. Una volta, dopo la morte della mia seconda moglie, Liz mi propose in pratica di vivere insieme. Mia figlia però non voleva e fu no.

Qual è il personaggio più carismatico che ha fotografato?

È stato Tito. Lo conobbi perché Burton aveva firmato nel 1973 per “La battaglia di Sutjeska”, un film jugoslavo sulla guerra partigiana in cui lui interpretava proprio il Maresciallo Josip Broz. Mi mandò in avanscoperta a casa di Tito, sull’isola di Broni, posto bellissimo. Era un uomo maturo, che incuteva un gran senso di rispetto. A colazione mi chiese: «Che cosa pensano di me gli italiani?». Io non seppe cosa dirgli, feci una magra figura.

Anche famiglie reali, giusto?

Sì. Grace Kelly, una persona davvero amabile. Una notte con lei rimanemmo fino alle 3 a vedere le pose. Anche Ranieri di Monaco è una persona di charme, molto simpatico. Con il figlio Alberto sono rimasto in contatto. E poi ho fotografato lo Scià di Persia e la consorte Farah Diba. E Pablo Picasso…

Tutti grandi personaggi.

Picasso lo fotografai per “Paris Match”, nella sua villa in Costa Azzurra. Le prime ore rimasi in silenzio, mentre lui dipingeva. Poi non trovai di meglio che chiedergli «ma come si diventa Picasso?». Mi sarei preso a schiaffi, dopo… Mi invitò a fotografare colui che definiva «il Picasso italiano»: parlava di Guttuso, che io nemmeno conoscevo. Da Picasso ho ricevuto però il più bel complimento, quando disse che nelle mie foto «il bianco e nero è come il colore».

Perché poi lasciò all’improvviso questo mondo dorato?

Ero troppo ignorante, quasi un re dell'ignoranza. La mia mancanza di cultura mi dava fastidio nei consessi di più persone. Anche sulle lingue sono stato un autodidatta, anche se oggi ne parlicchio 4, le maggiori. Mi sono messo a studiare un po’ per conto mio. Sono sempre rimasto molto umile, per questo non ho avuto contrasti con le grandi star. A parte una volta con Steve McQueen, con cui litigai durante le riprese de “Le 24 ore di Le Mans”. Rimasi sul set per 2 settimane, in pratica a giocare a carte con Angelo Infanti (attore italiano, ndr), fu proprio Burton a farci fare pace.

Torniamo indietro. Note sono anche alcune sue foto di Al Pacino.

Lo fotografai da giovane. Un manager della Mgm mi disse: «Guarda, c’è questo ragazzo, all’Actor’s Studio tutti ne parlano». Gli feci degli scatti, era molto timido. Qualche anno dopo, negli Usa, Michelangelo Antonioni mi disse che voleva conoscerlo: organizzai e lui ci ricevette a casa sua…. in mutande, sa, è un uomo molto semplice. Tempo dopo lo incontrai su Madison Avenue e lui si scusò: «Non era mancanza di rispetto - mi disse -, è che prima di quell’incontro avevo provato diversi abiti, ma nessuno mi soddisfaceva…».

Altri grandi personaggi?

Clint Eastwood. Mi fu fissata una seduta con lui per i 25 anni di “Vogue Uomo”. Lui temeva che fosse una cosa lunga, io gli dissi «mettiti un collo alto per nascondere i segni del tempo», e lui indossò un maglioncino. Gli feci appena 6-7 scatti, furono sufficienti.

E De Niro?

L’ho conosciuto ai tempi di “C’era una volta in America”. Professionista molto serio. Sergio Leone mi contattò quando cercava produttori per il film. «Famo la risposta italiana al Padrino», mi disse in romanesco. La Mgm era pronta a dire sì se Leone avesse tagliato la sceneggiatura, che era di ben 700 pagine. Ricordo che all’epoca c’era un titolo alternativo, “In gold we trust”, e che Max, l’amico di Noodles/De Niro, lo doveva interpretare Dustin Hoffman (poi è stato James Woods, ndr). Alla fine per produrlo si fece avanti un “certo” Arnon Milchan.

Perché ha fotografato pochi attori italiani?

La vita mi ha portato molto tempo fuori Italia. Ero molto amico di Mastroianni a esempio, lo conoscevo da quando eravamo bambini e poi quando lui faceva ragioneria. Quando provavo a fargli qualche scatto, lui però mi diceva “ma che te metti a fa’….”.

Anche da produttore ha conosciuto poi grandi star.

Le racconto un episodio. Facevo già l’assistente produttore e un giorno Sylvester Stallone, che prima di allora aveva fatto solo piccole parti, mi fece leggere la sceneggiatura di “Rocky”. Nella prima versione il personaggio alla fine moriva, anche io gli dissi di cambiarla.

Una grande soddisfazione che ha avuto?

Quando tornai dagli Usa ho addirittura codiretto col regista Carlo Lizzani “Non eravamo solo ladri di biciclette”, un documentario sul neorealismo accompagnato da un libro. Con lui avevo già lavorato sul set di “Mussolini ultimo atto”.

E ora questa mostra sui suoi scatti.

Una rassegna la voleva fare già il Moma di New York su ben 250 mie foto. In pratica mi chiedevano però 2 anni di vita perché poi volevano portarla in giro per il mondo e io ho declinato. Stavolta ho accettato perché alle “Giornate della Luce” mi avevano chiamato già nel 2021 a parlare del mio amico Giuseppe Rotunno. A proposito: mi ricordo quando mi chiamò l’agente di Barbra Streisand perché lei voleva conoscere Rotunno. Fissammo l’incontro, ma fra i due non scattò la scintilla. Lui era già famoso, ma aveva lavorato soprattutto in Italia, temevo che si fosse giocato le chances negli States. Invece dopo nel 1978 lo chiamò Bob Fosse per “All that jazz”, un grande film che deve parte del suo successo proprio alla fotografia di Beppe.



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