martedì 12 ottobre 2010
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«La sensazione è che ci siano ter­ritori di questa città lasciati completa­mente a se stessi» osserva la sociologa della Cattolica Rosangela Lodigiani. Terri­tori che col tempo hanno perso coesione sociale e o­ra rischiano di diventare simboli di un disagio na­scosto, pronto a esplodere improvvisamente. Tentare di dare una chiave di lettu­ra univoca alla vicenda del tassista finito in coma a Milano non è semplice, vi­sto che quanto è successo va chiarendosi solo col passar delle ore. Però un ragionamento sulle nuove dinamiche sociali che ten­dono a imprigionare Mila­no va fatto. «Occorre cau­tela nel giudicare – pre­mette Lodigiani, che ha cu­rato il Rapporto 2010 sulla città pubblicato dall’Am­brosianeum –. Prima di tutto va detto che siamo davanti a un episodio di violenza gratuita, all’atto sconsiderato di una perso­na. Forse però occorre ri­flettere di più su quel che è successo dopo». Il silenzio, l’omertà, le in­timidazioni agli stessi te­stimoni oculari... Ciò che colpisce di più è la sensazione che ci siano in­tere zone ripiegate su se stesse, che si sentono co­me separate dal resto del­la città. Ci si autoesclude dal tessuto cittadino per recuperare senso di appar­tenenza. Questo può esse­re un fatto positivo, finché non porta a sviluppare rea­zioni contro tutto e contro tutti. È come se ci si doves­se difendere da qualcosa che arriva da fuori. Per ora, a rimetterci è sta­to un tassista. Perché? Non c’è dubbio che la ca­tegoria dei tassisti sia par­ticolarmente esposta e che la loro sicurezza rappre­senti un problema serio. Certo, parlare di porto d’ar­mi per loro come ha fatto qualcuno, non appare una risposta adeguata. Come spiega il clima di tensione che ha accompa­gnato l’azione sul territo­rio di forze dell’ordine e investigatori? Quando nascono microco­munità molto chiuse, la gente si chiude a riccio nel proprio privato e anche la domanda di sicurezza tro­va risposte di tipo perso­nale. Neppure i garanti del­l’ordine esterni vengono accettati, quasi infranges­sero un patto tacito di au­totutela. Eppure in questi anni a Milano diversi quar­tieri sono stati il punto da cui ripartire, con esperien­ze importanti di animazio­ne sul territorio. Laddove si riescono a ricreare lega­mi sociali, la sicurezza non rappresenta più un incu­bo. In questo caso, alcuni cit­tadini hanno rotto l’o­mertà e hanno raccontato l’accaduto. È un fatto molto impor­tante. Quando emerge, il senso di responsabilità dei cittadini va sostenuto e va­lorizzato. Di più: andrebbe incoraggiato in un mo­mento come questo di par­ticolare difficoltà per la città nella costruzione dei legami sociali, perché ri­porta a un senso di solida­rietà allargata che abbia­mo perso. Perché Milano è diventata una città impaurita? Perché le politiche di tipo securitario da sole non aiu­tano: diffondono un senso di insicurezza, che in alcu­ni casi produce intolleran­za, come ricordano i casi di via Padova e dei campi rom. La Caritas ambrosia­na recentemente ha pro­posto di trasformare lo slo­gan 'Milano sicura', in 'Milano si cura'. È un’idea giusta: invece di creare confini ed esclusione, oc­corre prendersi cura gli u­ni degli altri. Come dice il cardinale Tettamanzi, non si può parlare di sicurezza senza parlare di accoglien­za, di apertura e di incon­tro con l’altro.
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