Il termine «equilibrio» può sembrare ormai estraneo al rapporto tra politica e giustizia nel nostro Paese. In questa intervista, il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Michele Vietti prova lo stesso a chiedere uno sforzo a tutti i protagonisti coinvolti, sollecitando la fine delle «reciproche invasioni di campo». Le toghe dovrebbero ricorrere sempre con la dovuta misura a strumenti delicati come la custodia cautelare e le intercettazioni. Gli eletti dal popolo dovrebbero porre alle proprie condotte il limite dell’etica pubblica, prima ancora che quello del codice penale. E guardare oltre l’interesse del momento per fare (ma anche abrogare) leggi in modo da snellire i processi e non renderli, al contempo, ancora più numerosi e ancora più lunghi, se non inutili. In ogni caso, «prima o poi» sarà inevitabile tornare a una qualche forma di tutela dei parlamentari rispetto alle iniziative giudiziarie.
Da quasi vent’anni l’Italia è prigioniera di questo conflitto. Come se ne esce?Tenendo presente il fondamentale principio della separazione dei poteri, che è alla base delle scelte della nostra Costituzione e che nei moderni Stati liberali garantisce autonomia a ciascun potere nell’ambito delle proprie attribuzioni. Politica e magistratura, in quanto espressione di poteri dello Stato sovrani ed indipendenti nell’ambito delle specifiche attribuzioni, non debbono né scontrarsi né marciare a braccetto. Debbono invece occuparsi di evitare le invasioni di campo reciproche che, a ben vedere, sono state la causa di tutti gli attriti che periodicamente si sono avuti, appunto, negli ultimi venti anni.
In questi giorni un deputato della maggioranza è finito in carcere, un altro rischia grosso, il principale partito di opposizione è investito da inchieste su appalti e relative presunte tangenti. Non vede il rischio di un ritorno al "tintinnio di manette"?In un sistema come il nostro, ad esercizio obbligatorio dell’azione penale, la magistratura inquirente, in presenza di notizie di reato, esercita la propria funzione, che deve comunque essere sempre sottoposta al vaglio di un giudice, nel corso di tre gradi di giudizio in cui si alternano almeno 15 diversi magistrati. Da un lato la politica deve porre l’asticella del minimo etico dei suoi componenti più in alto del rilievo penale dei comportamenti, così da evitare che l’intervento giudiziario coincida con la censura di correttezza, che deve intervenire prima e non dopo. Dall’altro, come ha ricordato il capo dello Stato ai magistrati in tirocinio, la funzione giudiziaria deve essere svolta con rigore ma anche con riserbo, poiché il clamore mediatico non può che danneggiare la serenità del procedimento giudiziario, mentre l’esercizio scrupoloso e imparziale delle funzioni può «impedire, o almeno attenuare, attriti e polemiche in grado di lasciare strascichi velenosi e di appesantire le contrapposizioni tra politica e giustizia».
La legge sul legittimo impedimento abrogata dal referendum di giugno, alla cui prima stesura lei collaborò in veste di deputato dell’Udc, prevedeva un successivo intervento sulla Costituzione per disciplinare le modalità di partecipazione del presidente del Consiglio ai processi penali. Ma c’è anche chi ha ipotizzato il ripristino di una qualche forma di immunità per i parlamentari.L’ipotesi di legittimo impedimento da me proposta era molto più restrittiva di quella approvata dalla maggioranza parlamentare. Se fosse rimasta così, almeno a leggere la motivazione della sentenza della Corte costituzionale che proprio i successivi eccessi ha censurato, avrebbe forse superato il vaglio di costituzionalità. Certo il giudizio degli italiani dello scorso giugno va tenuto in debita considerazione, ma - prima o poi - quando gli animi si saranno rasserenati, potrebbe essere nuovamente affrontato il modo di evitare una frizione diretta e immediata tra l’esercizio dell’azione penale e la funzione parlamentare.
Il neo ministro della Giustizia ha promesso che si sforzerà di cercare riforme condivise. Ma intanto il governo va avanti a colpi di fiducia, l’ultima sul cosiddetto "processo lungo", che lei ha già avuto modo di criticare.Al ministro Palma ho inviato un sincero augurio di buon lavoro. Sono convinto che la sua passata esperienza in magistratura gli consentirà di ponderare con attenzione le ricadute sistematiche delle scelte del governo in materia di giustizia. Come già accaduto in passato per il cosiddetto "processo breve" e per i vari tentativi di riforma delle norme sulla prescrizione e sulle intercettazioni, anche per il cosiddetto "processo lungo" bisognerebbe sforzarsi di "alzare lo sguardo" dalla contingenza. Non sarebbe allora difficile convincersi che i tempi dei processi si allungherebbero inesorabilmente, il che non mi pare in linea né con gli intendimenti del governo in tema di accelerazione dei tempi della giustizia, né con le indicazioni che ci provengono dall’Europa, specie in tema di contenzioso innanzi alla Corte europea dei diritti dell’Uomo.
Veniamo alle responsabilità dei magistrati, per esempio sull’uso della carcerazione preventiva e delle intercettazioni.Il procuratore di Milano, qualche giorno fa, ha dimostrato che il dato numerico delle intercettazioni telefoniche è sceso in maniera assai rilevante rispetto al passato. Certo la magistratura deve essere consapevole che è stata e sarà giudicata anche in relazione all’uso proporzionato degli strumenti che l’ordinamento mette a sua disposizione. Sotto questo profilo è necessario molto equilibrio, perché non avvenga quello che il primo presidente della Corte di Cassazione ha ricordato giovedì scorso in occasione di un convegno organizzato al Senato: il rischio che la carcerazione preventiva sia utilizzata come sostitutiva della pena definitiva, nella convinzione che l’accertamento finale della responsabilità penale sia sempre più una chimera...
Poi c’è il nodo irrisolto dei magistrati che lasciano la toga e, praticamente il giorno dopo, si fanno eleggere o assumono incarichi politici nello stesso territorio in cui hanno esercitato la giurisdizione.Il Csm ha da tempo avanzato al Parlamento una pressante richiesta di intervento legislativo che impedisca il fenomeno di chi è eletto o entra nelle giunte degli enti locali laddove svolgeva attività giudiziaria. Nessuno vuole impedire al magistrato di intraprendere una carriera politica, ma è certo che il requisito dell’imparzialità rischia di essere offuscato dall’eventualità di un ritorno alla toga di chi ha militato in un partito. Una soluzione potrebbe consistere nel rientro dell’ex magistrato nei ruoli della pubblica amministrazione, con altre funzioni.
Le condizioni delle carceri italiane sono drammatiche, non rispettose della dignità umana e della Costituzione. Quasi metà dei detenuti è in attesa di giudizio...Il presidente della Repubblica ha recentemente sollecitato tutte le istituzioni competenti ad intervenire con urgenza, per porre fine ad una situazione di intollerabile sovraffollamento, che finisce per incidere anche sul trattamento dei detenuti, spesso al limite dell’umano, come accade negli istituti psichiatrici giudiziari. Una della cause più evidenti di questa situazione è la tentazione della politica di rispondere alle urgenze del Paese con la creazione di sempre nuove figure di reato, salvo poi lamentarsi dell’eccesso di strumenti penali a disposizione della magistratura. L’esempio del reato di immigrazione clandestina è al proposito paradigmatico: non solo la sua introduzione non ha arrestato il fenomeno degli sbarchi di massa, ma ha ingolfato la giustizia e, da ultimo, è stato sostanzialmente messo in discussione dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Una vicenda da cui trarre insegnamento, per non ripetere lo stesso errore in futuro e procedere invece sulla strada di una seria de-penalizzazione, affinché le sempre più risicate risorse del bilancio della giustizia si concentrino sulle effettive priorità secondo il reale e grave allarme sociale suscitato nel Paese.