lunedì 27 agosto 2012
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​Luca Martinelli è l’uomo che legge le bollette, le gare d’appalto, i capitali societari. Cose abbastanza incomprensibili per la casalinga di Voghera. Lo fa da anni per la rivista Altraeconomia e conosce a memoria la legge Galli, con tutti i nessi e i connessi. L’esito del referendum ha imposto di fare marcia indietro: ma questa campagna non ha rallentato un iter attuativo che era già lentissimo?I movimenti hanno ottenuto il primo obiettivo necessario per fare ripartire l’iter secondo principi condivisi. L’acqua non può essere considerata una merce: pagarla in quanto complesso di servizi al cittadino – acquedotto, estrazione, potabilizzazione – per renderla consumabile all’interno delle nostre case va bene, ma pagare in tariffa anche la remunerazione del capitale investito dal gestore, come prevedeva la legge Galli prima del referendum, non ha senso.La legge Galli ha qualche merito indubitabile?Ha riorganizzato il servizio idrico integrato nel nostro Paese, vale a dire ha fatto venir meno un sistema talmente spezzettato da essere ingovernabile, con 8.000 gestori, uno per ogni comune: non era una situazione sostenibile.Qual’era la novità più grande?Si chiama full recovery cost: il cittadino diventa responsabile, pagando la bolletta, degli investimenti che le aziende portano avanti per la manutenzione e l’ammodernamento delle reti idriche. In sostanza, il cittadino paga in anticipo il rischio di impresa. L’errore però è qui: far venir meno il ruolo finanziario dello Stato nella gestione del servizio idrico.Ed è qui che si è dato sempre più spazio ai privati...Si era creato un vuoto, potenziato dalle leggi finanziarie successive al 1994. Per questo diventava necessario favorire l’ingresso di capitale privato nelle aziende di gestione del servizio idrico. L’ingresso dei privati, con capitali e know how, doveva essere tutto a vantaggio dell’efficienza del servizio. Ma non si è riflettutto abbastanza sul fatto che qualunque società per azioni, anche quando è a totale controllo pubblico – cioè quando il 100% delle azioni sono in mano ai Comuni – è di fatto un soggetto di diritto privato e si comporta come tale: vale a dire, insegue il profitto.Le società miste, quindi, non sono esenti da queste logiche.E infatti la legge di iniziativa popolare presentata dai movimenti nel 2007 lo sottolinea: bisogna tenere alta la guardia sulle nostre realtà aziendali. Primo perché coloro che le amministrano le fanno ancora passare per pubbliche. Ai media viene spesso detto che se il Comune controlla il 51% delle azioni dell’azienda, si può stare tranquilli: il controllo delle aziende rimane pubblico. Ma non è così. Quando il capitale azionario dell’azienda si apre al privato, si firmano dei patti parasociali. In essi viene indicato l’amministratore delegato, cioè colui che prende le decisioni operative, mentre la maggioranza del consiglio di amministrazione fa capo al socio privato dell’azienda. Questo sistema fa sì che, se la presidenza della società viene lasciata in mano all’azionista pubblico dell’azienda – un ruolo di mera rappresentanza – le scelte operative vengano prese dal socio privato. Spesso senza alcun interesse nel salvaguardare gli utenti o i consumatori ma con l’obiettivo di soddisfare gli azionisti che vogliono recuperare almeno il 7% del capitale investito.
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