sabato 24 giugno 2023
Secondo la senatrice del Pd, tutto il decreto Lavoro esprime un approccio «educativo/punitivo». Pure sui voucher e sui contratti a termine.
Sandra Zampa

Sandra Zampa - Ansa

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Senatrice del Pd ed ex sottosegretaria alla Salute, Sandra Zampa è convinta che il decreto Lavoro sia indicativo della «distanza politica e valoriale tra destra e sinistra» e riveli una «concezione della povertà come uno stato di colpevolezza». Questo perché «non tiene conto delle circostanze che determinano la condizione di indigenza», basti pensare che «ormai si può essere poveri anche lavorando».

Senatrice, cosa pensa dell’Assegno di inclusione introdotto dal dl?

Innanzitutto, a differenza del Reddito di inclusione introdotto dal Pd, non è più un intervento di carattere universale. Il governo ha diviso i poveri in due categorie: ci sono i meritevoli (famiglie con persone non autosufficienti o minori); e i non meritevoli, per i quali non si arriva neanche alla cosiddetta “offerta congrua” e qui arriva la seconda categoria di gravissimi errori che caratterizza la misura.

Quale sarebbe?

Quella legata al fatto che si ignora il senso dell’articolo 36 della Costituzione, che non impone solo una retribuzione adeguata alla qualità e alla quantità del lavoro svolto, ma anche la garanzia di ottenere le risorse necessarie a una vita dignitosa e libera. Ma se invece di fare la guerra alla povertà la fai ai poveri e li metti in condizione di dover accettare qualunque cosa, a qualunque distanza, stai mettendo i lavoratori sotto ricatto costringendoli ad accettare occupazioni non dignitose.

Cos’altro non va nel decreto?

La moltiplicazione dell’utilizzo del voucher e la facilitazione del ricorso al contratto a tempo determinato. Elementi che dimostrano la concezione di lavoro di questo governo e il valore che gli attribuisce. È come se dovessi lavorare per espiare la tua colpa. Qualunque cosa diventa accettabile perché altrimenti sei un fannullone che vuole stare sul divano. C’è poi il cuneo fiscale, su cui l’esecutivo ha costruito tutta la narrazione che ha accompagnato il provvedimento, ma che alla fine dura fino a dicembre e non è strutturato, è privo di prospettiva. Il punto è che non hanno idea di cosa sia la povertà. È un problema di cultura politica.

Il Reddito di cittadinanza, in questo senso, rappresentava una visione opposta, o no?

Certo. Rilevo però che a introdurlo è stata la Lega, i cui esponenti sono intervenuti in Aula in questi giorni parlandone come fosse una cosa “demoniaca”. In ogni caso non ho remore nel dire che aveva dei difetti. Il Rei ad esempio metteva la gestione del sostegno in carico ai Comuni e questo lo rendeva più sicuro, mentre allontanare i controlli centralizzando e mettendo tutto in capo all’Inps ha reso la faccenda più complessa. Il fatto però è che abbiamo buttato il bambino con l’acqua sporca e comunque era una misura riconducibile a un’altra cultura rispetto a chi vede la povertà come un dato di colpevolezza e ha concepito un provvedimento di sostegno come uno strumento educativo/punitivo, che costringe ad accettare lavori a due ore di distanza da casa propria o anche in altre Regioni. C’è poi una questione di metodo.

A cosa si riferisce?

Fino all’ultimo la relatrice ha presentato emendamenti in Aula. Tra questi uno destinava un milione di euro alla comunicazione del dl (propaganda). Poi ce n’era un altro che riguardava le modalità di calcolo della scala di equivalenza, quella che determina la platea e la quantità di risorse. Ebbene l’Ufficio parlamentare ha chiarito che il provvedimento, così com’era, avrebbe lasciato per strada il 42% dei percettori e utilizzato il 28% in meno di risorse. A quel punto c’è stato bisogno di una correzione in Aula, in barba al richiamo della premier che aveva chiesto di rispettare il lavoro delle opposizioni e a quello del ministro Ciriani che aveva spinto affinché i ministeri seguissero i lavori delle commissioni. Ma noi la ministra Calderone non l’abbiamo mai vista.

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