mercoledì 18 luglio 2012
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La sfida è invito a osservare l’architettura, in particolare quella contemporanea prodotta dalla fine del Settecento in poi, dal punto di vista di quella soluzione finale della condizione umana chiamata, in ambito cristiano, inferno. Tale punto di vista non può non tener conto del senso specifico, non generico o semplicemente allusivo, dell’inferno, “luogo” dominato da una signoria demoniaca, da un diabolos capace di dividere, frantumare ogni realtà e atto umani positivi, portatori di bene. La dizione architetture diaboliche richiama immediatamente alla memoria sia immagini che luoghi concreti nei quali si organizza ed esprime un potere di sopraffazione; tuttavia le forme di tali costruzioni non risultano diaboliche in modo meccanico, tramite puro rispecchiamento del “male” nel “brutto” o in un “bello” ambiguo architettonico. L’architettura carceraria, ad esempio, in linea di principio e intenzionalmente luogo di rieducazione, così come quella manicomiale, è divenuta spesso, anche oggi lo è, abitazione infernale; ma il nesso tra i modi infernali dell’abitarvi e la sua diabolicità non è affatto questione scontata. Si può trovare conferma di ciò nell’interpretazione che Piranesi, nelle celebri incisioni di carceri di invenzione, ha offerto in suggestive ambientazioni del carcere come luogo dello smarrimento delle coordinate antropologiche fondamentali di spazio e tempo, senza richiamare né la condizione educativa né quella propriamente diabolica del luogo concreto. Spazio al contempo chiuso e indefinitamente ampio, il suo carcere è luogo un cui sfuma la consistenza elementare tridimensionale con la quale si misura lo spazio e si progetta l’architettura, in modo analogo allo sfumarsi di tale consistenza nel sogno, in un sogno turbato, non sereno, indecifrabile, vale a dire coincidente con un luogo dal quale non si esce e nel quale ci si perde. Il luogo carcerario è indefinito, non infinito, più precisamente è luogo che non è pensato come figura finita, direbbe Rosario Assunto, dell’infinito, quindi come simbolo. Sembrerebbe un luogo non più terreno ma neppure ancora infernale o celeste, una specie di limbo, di terra di mezzo, non casualmente carcere, figura di un carcere mentale, psichico, lontano dalla concretezza di luogo reale.Architettura diabolica appare invece senza dubbio un palazzo di governo concepito per assecondare un esercizio perverso del potere: la sua forma costruttiva è incombente, forse labirintica all’interno la sua percorrenza, contrassegnata da anditi e percorsi segreti, cupo il suo aspetto esteriore in molte stanze, fintamente nobile in altre. Si pensi al palazzo di Ceausescu in Romania, grandioso ma banalmente ripetitivo nei moduli, sfarzoso ma cupo; si ricordi il progetto per la Berlino hitleriana dell’architetto Albert Speer con l’enorme cupola dell’edificio centrale del governo, segno di una sopraffazione schiacciante sui popoli.Anche un palazzo concepito e vissuto come luogo di un governo legittimo, non perverso, può divenire sede di torture e sopraffazioni in alcune fasi della sua storia. Non è facile, per chi lo eredita, recuperarlo a una positività di significato e a un uso attraente. Tuttavia tale recupero può imporsi come voluto riscatto, come intenzionale superamento di una tragedia collettiva: è questo il caso del Reichstag di Berlino, recuperato recentemente col progetto dell’architetto Norman Foster, che lo ha dotato di una grande cupola trasparente percorribile, segno debole, giocoso e fondamentalmente elusivo di un riscatto in cui si avverte il peso di una responsabilità collettiva. La celebrata e lunga tradizione simbolica della cupola icona del cielo sembra qui infrangersi in un gioco di trasparenze di effetto scenografico. La cupola, è noto, è stata, per quasi duemila anni di storia, figura del cielo, in particolare nei luoghi di culto, per questo popolata di immagini paradisiache. Trasmigrando, in tempi recenti e all’interno di una cultura scientifica che aveva smitizzato il cielo, in spazi con funzione civile, come ad esempio il Campidoglio di Washington, ha dato luogo al rimando allegorico al governo di una democrazia rappresentativa, affermando quindi un potente nesso figurativo, di carattere totalizzante, tra architettura e società, ma perdendo l’originaria valenza simbolica. Anche una fabbrica industriale progettata per lo sfruttamento coatto di gruppi umani a favore di una crescita economica sotto il segno di un collettivismo imposto o comunque di un potere dispotico, può essere ritenuta diabolica. Si pensi alle grandi fabbriche sovietiche, connesse ai piani quinquennali varati dopo la rivoluzione del 1917, i cui operai erano contadini privati delle loro terre e deportati dai loro paesi. Quelle gigantesche fabbriche rispondevano a logiche di utopica giustizia sociale, concepita e gestita da pochi e imposta da molti.Questo ultimo caso mi impone il ricordo di un progetto illuminista della fine del XVIII secolo, quello delle Saline reali di Arc et Senan realizzato da Claude Nicolas Ledoux, spesso richiamato in molti manuali di storia dell’architettura come progetto fondatore della contemporaneità. Qui gli operai addetti all’estrazione e alla lavorazione del sale, prodotto la cui vendita era sottoposta a dazio, erano rinchiusi in un habitat che razionalizzava tempi e modi del lavoro e della vita personale. Il massimo di efficienza era ottenuto sotto il controllo di un padrone che vegliava sulla vita degli operai come un demiurgo, diretto vicario di Dio. Tale progetto di reale coercizione sistematica divenne, nell’immaginario del suo progettista, matrice per un’intera città disegnata come luogo di una socialità utopica in senso libertario. Proporla nella serie, qui abbozzata, delle architetture con qualche imprinting diabolico, mi chiede di spostare la riflessione su un altro registro, complementare a quello fin qui preso in considerazione. La proposta di Ledoux segna la conclusione di un pensiero utopico alla Thomas More, che ha immaginato condizioni di vita “perfette” senza pretesa di metterle in atto perché impossibili agli uomini, feriti dalle contraddizioni di un peccato d’origine che ha lasciato tracce importanti. Non intendo qui affrontare la tematica complessiva dell’utopia nell’architettura contemporanea, in tutti i passaggi chiaroscurali che la caratterizzano. Segnalo soltanto che tale tensione utopica ha avuto, oltre che un aspetto luminoso perché aperto alla costruzione di nuova e più umana socialità, un volto oscuro, benché formalmente o artisticamente suggestivo, di cui le Saline di Ledoux mi pare siano caso emblematico. Anche la loro generale valo izzazione, tra le matrici originarie della grande corrente razionalista del Novecento, segnala un problema non trascurabile di identificazione del compito dell’architettura, delle modalità con cui il suo progetto si pone, non al servizio della società nei caratteri che concretamente la contraddistinguono, ma alle radici della sua configurazione, della sua identità, in condizione dunque di poterne rovesciare lo statuto tradizionale. Da questa irrisolta o contraddetta correlazione tra domande sociali concretamente riferite a soggetti storici esistenti e progetto, architettonico e urbano, discende una delle problematiche più complesse dell’architettura del XX secolo, in cui rientra l’alterazione del tradizionale rapporto tra committente e progettista.
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