lunedì 5 luglio 2010
Nel Foggiano 4 imprese du 10 sfruttano il lavoro nero. Ai 15 mila irregolari che ogni anno invadono la "California d'Italia" ora si aggiungono i loro connazionali licenziati dalle fabbriche del Nord. Dodici ore al giorno (senza pause) a 3 euro l'una; un terzo del salario finisce nelle tasche dei "capi".
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Gli africani lo chiamano ghetto, significa luogo di sopravvivenza. Cinque case in muratura decrepite, con i cartoni alle finestre e la spazzatura in mucchi da bruciare davanti all’uscio, perse tra gli ulivi nell’agro tra Foggia, San Severo e Rignano Garganico. All’ombra dei porticati pericolanti, giovani africani in calzoni corti e infradito siedono per ripararsi dal sole allo zenit. Qualcuno nel campo usa la canna dell’acqua per irrigare per lavare i panni o dissetarsi. Per terra sono sparse le taniche distribuite l’anno passato da Medici senza frontiere.«Sono spariti invece i bagni chimici e i cassonetti per l’immondizia che avevano portato l’anno scorso», nota G., operatrice che collabora con il missionario scalabriniano Arcangelo Maira a soccorrere il popolo del ghetto. Non c’è il tutto esaurito, al massimo ci saranno 50 persone. Tra fine luglio e Ferragosto, quando la raccolta di pomodori raggiungerà il picco, arriveranno 4-500 persone per lavorare a pieno ritmo, chinate dall’alba al tramonto a raccogliere le preziose piantine che arrivano velocemente a maturazione. Allora i lavoratori saranno sfrattati dai tuguri per portare i materassi lerci in baracche di cartone tirate su in fretta e gli edifici cadenti diventeranno ristoranti di fortuna e improvvisati bazar.Sempre senza corrente e acqua potabile a portata di mano. Una casa rosa ospita alcune donne obbligate a prostituirsi di notte per i braccianti. In Capitanata da questa settimana si parte sul serio con la raccolta dei pomodori, 12 ore al giorno per 3 euro di salario all’ora in nero quando va di lusso, un terzo dei quali da ripartire con il caporale. La notte si trascorre in ripari di fortuna sovraffollati, poca acqua e zero pause. Ritmi che minano la salute di parecchi raccoglitori, giovani dai 20 ai 40 anni. Sono africani, soprattutto ghanesi e ivoriani. Ma non mancano i maghrebini, Marocco in testa, e gli europei orientali dalla Romania e dalla Bulgaria. Nessuno ha scelta, partono disperati alla volta di questi 25mila ettari di terra fertilissima tanto i lavoratori licenziati per primi dalle fabbriche del Nord quanto gli stagionali in nero che girano le campagne del triangolo Rosarno-Castelvolturno-Capitanata.«Qui – conferma Antonio Russo, fino al mese scorso presidente provinciale delle Acli e responsabile nazionale per l’immigrazione – si produce un terzo dei pomodori coltivati nel Paese». Su quasi sei milioni di chili, quasi due. «E si stima, perché i controlli sono impossibili, che transitino 15mila braccianti stranieri ogni anno». Il decreto flussi ne ha concessi un migliaio, quelli legalizzati lo scorso anno. Russo appartiene alla generazione di mezzo dei quarantenni, che d’estate per pagarsi gli studi non disdegnava di andare nei campi.«Oggi – afferma – si ricorre a pochi braccianti italiani specializzati, poi prevale il lavoro nero procurato dai caporali, spesso stranieri. Le paghe sono dimezzate rispetto a quelle del nord. In questi anni, però, si è rafforzata la società civile che contrasta questa vergognosa illegalità. E l’immigrazione, poiché oggi si producono ortaggi tutto l’anno oltre alla raccolta di olive, sta diventando stanziale aprendo il tema dell’integrazione di lavoratori, donne e bambini». Proprio per l’azione delle associazioni, Medici senza frontiere quest’anno non interverrà. Associazioni in trincea che denunciano ad esempio l’incremento di truffe ai danni di questi disperati.«Le vittime sono soprattutto marocchini – racconta Domenico Lamarca, mediatore culturale del centro "Baobab, sotto la stessa ombra", progetto per l’integrazione – ai quali i datori chiedono il versamento di seimila euro in cambio della chiamata nominale che garantisce assunzione e permesso. Quando si presentano qui l’imprenditore non si fa vedere». Così, si ritrovano irregolari e rovinati. Certo, come rende noto l’Oim, organizzazione internazionale dei migranti che stilerà un rapporto a fine mese, la prefettura di Foggia intende controllare a tappeto. Tuttavia, nonostante i rischi e la caduta dei prezzi agricoli. La domanda di manodopera in nero resta forte per due ragioni. Primo, è l’ultima estate dei sussidi Ue parzialmente disaccoppiati al raccolto, in cifre 1000 euro ad ettaro al produttore. Secondo, da fine luglio i contributi raddoppieranno per la fine degli sgravi al Mezzogiorno. Quindi salirà la domanda di lavoro irregolare. Dove finisce l’oro rosso di Capitanata? Da due anni il 30% viene lavorato in loco da un’azienda salernitana, il resto va in Campania. Così vuole la camorra, dicono tutti sottovoce. «Certo, qualcosa va meglio – ribadisce Diego De Mita, segretario dell’Anof -Cisl  – e la paura dei controlli sta spingendo molti agricoltori a preferire i neocomunitari. Ma non per regolarizzarli. Colpa della diffusa illegalità». I datori pensano insomma di potersela cavare sfruttando bulgari e romeni anziché gli africani. Ma questi si offrono a gruppi ai caporali e al mercato della disperazione spuntano salari  più alti.  I minatori dell’oro rosso vivono ancora così in quella che chiamano California d’Italia.
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