lunedì 19 settembre 2022
Fondazione Carolina ogni anno incontra 70mila studenti: «Gli insegnamo che lo smartphone è uno strumento, non il contenitore della loro vita». Dal Bingo rivisitato alla “scatola degli attrezzi”
Un altro momento di lavoro in classe. Al centro del cerchio dei ragazzi (che sono connessi concretamente con un filo rosso per insegnare loro che cosa significa “condividere” sui social e nella realtà), il pedagogista Ivano Zoppi

Un altro momento di lavoro in classe. Al centro del cerchio dei ragazzi (che sono connessi concretamente con un filo rosso per insegnare loro che cosa significa “condividere” sui social e nella realtà), il pedagogista Ivano Zoppi

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Ore 8.45, terza media di un istituto dell’hinterland milanese. Il sacco pieno di Lego in una mano, le cartelle del Bingo nell’altra. A ogni studente ne viene distribuita una: al posto dei numeri ci sono frasi. «Ha un profilo social seguito da più di 300 follower», «Guarda video su YouTube», «Manda più di 50 messaggi al giorno su WhatsApp» e così via, fino alle condivisioni, ai video su Tik Tok, a chi il telefono lo tiene acceso anche di notte, a chi condivide foto e video. Alessandro alza la mano annoiato: «E adesso che ci facciamo?». L’educatore risponde: «Adesso giochiamo». Ogni giorno in 150 scuola italiane – prima di vietarne l’uso, prima di chiedere di rinchiuderlo in un cassetto e riprenderlo alla fine delle lezioni – c’è chi prova a insegnare ai ragazzi a usare il cellulare come uno strumento. Che è quello che dovrebbe essere, o tornare ad essere. Che è quello che gli adulti – a cui pure al liceo Malpighi di Bologna in queste ore i cellulari sono stati tolti – forse per primi, come uno strumento soltanto, non usano più.

Non servono trattati di psicologia o lunghe prediche su cosa sia giusto e cosa sia sbagliato a chi vive già connesso h24: «Serve provare a connettere i ragazzi con loro stessi, ridando anima e senso a quello che col cellulare fanno» spiega Ivano Zoppi, pedagogista e segretario generale di Fondazione Carolina, in prima linea ormai da anni sul fronte dell’educazione digitale (e su quello strettamente connesso della prevenzione al cyberbullismo). Di qui il Bingo: ad Alessandro e i suoi compagni viene chiesto di alzarsi e di parlare con gli altri, chiedendo loro se fanno o hanno fatto una delle azioni riportate nelle caselle. Vince chi per primo le completa – facendole firmare –, il che in effetti avviene piuttosto in fretta. Perché chiunque ha un profilo social, già a 13 anni; perché chiunque pubblica video su Tik Tok, passa il tempo su YouTube, naviga senza il controllo degli adulti, chatta con gli sconosciuti nei videogiochi, partecipa a una challenge. «Che non lo faccia a scuola, può senz’altro avere conseguenze positive. Ma il punto – prosegue Zoppi – è che, in qualsiasi altro momento della giornata e ovunque lo faccia, abbia consapevolezza di quello che fa e di come lo fa». A questo punto le azioni descritte nelle caselle vengono prese in esame, una ad una: perché si ha un profilo social anche se la legge non lo consente ancora? Come mai si chatta di notte? Con che rispetto verso l’altro si condivide una sua foto mentre sta facendo qualcosa di stupido, o imbarazzante? Che cosa proviamo se viene fatto lo stesso con noi? E via dicendo.

In classe si apre il confronto, fioccano le domande. Che scatenano risate, piccole confessioni, dibattito. «Il profilo me lo ha aperto mia madre – racconta Elena –, se ero fuori dalla chat di classe e di pallavolo non ero nessuno». «Me che vuol dire? – sbotta la sua vicina di banco, Cristina – Mica sei qualcuno perché hai le chat». «E invece sì» interviene ancora Alessandro dall’ultima fila, che annoiato non lo è più. L’occasione è buona, per l’educatore, per suggerire ai ragazzi che la loro identità con lo smartphone non c’entra affatto. A questo scopo viene proposto loro di costruire un avatar con il Lego, che viene poi preso in esame da tutti, osservato, messo in relazione con gli altri. E poi, ancora, di costruire una “scatola degli attrezzi”, con la “pinza delle responsabilità”, il “nastro della privacy”, il “martello delle regole”: su ogni oggetto si discute, si passa del tempo a guardarlo da lontano, il cellulare, per capire cos’è e «perché non può diventare il contenitore della loro vita».

A compiere questo e altri percorsi, nell’ultimo anno scolastico, sono stati oltre 70mila studenti soltanto con Fondazione Carolina. Che della responsabilizzazione dei ragazzi e della formazione degli adulti (genitori, insegnanti, educatori, allenatori, catechisti) ha fatto i suoi pilastri: «Spesso veniamo chiamati in scenari di emergenza – continua Zoppi – laddove sono accaduti fatti gravi legati all’uso sbagliato degli smartphone e al cyberbullismo». Quando è troppo tardi, cioè, per educazione e prevenzione. Ma la consapevolezza dei dirigenti sta crescendo, «complice il vissuto del Covid, gli anni della Dad e il malessere crescente dei ragazzi». Che vivendo sugli smartphone, sugli smartphone anche parlano, amano, odiano, litigano, soffrono, a volte purtroppo muoiono. «La sensazione che abbiamo, dalle scuole nel centro di Milano fino a quelle della periferia di Lecce, è che siano persi, travolti da un’esposizione di cui ignorano regole e modalità. Soprattutto, drammaticamente invisibili agli adulti». Adulti che ai percorsi di Fondazione Carolina, sempre pensati per un momento di raccordo anche con le famiglie, partecipano pochissimo (appena 10mila le mamme e i papà degli studenti incontrati sui 70mila ragazzi di cui si diceva poco fa, contro i 140mila attesi) e che nel 75% dei casi problematici legati all’uso dei cellulari (dalle molestie fino al cyberbullismo) dai figli non vengono minimamente coinvolti «per sfiducia, per paura, più spesso perché del tutto disinteressati ai loro problemi». Ed ecco perché, allora, chiudere lo smartphone in una scatola sei ore al giorno finisce con l’assomigliare più a un alibi: «A rimanere aperta, e sanguinante, è la ferita dell’educazione».


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