martedì 5 maggio 2009
Il presidente delle conferenze episcopali europee spiega ad Avvenire il dossier «L'insegnamento della religione, una risorsa per l'Europa», presentato ieri a Strasburgo dal Ccee (Consiglio delle conferenze episcopali d'Europa): trentatré approfondimenti mettono a fuoco la tipologia dell'Irc nei vari Paesi.
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«Un fatto, un diritto e un servizio do­mandato da milioni di famiglie». Questo è l’insegnamento della re­ligione nelle scuole secondo il presidente del Con­siglio delle conferenze episcopali europee, l’arci­vescovo di Budapest cardinale Péter Erdo. Nella sede del Consiglio d’Europa alla vigilia dei suoi sessant’anni, esercita una certa suggestione che a illustrare la bontà dell’insegnamento religioso scolastico sia un ancora giovane prelato dell’Est, uno che nel 1956 era un bambino di quattro an­ni. Si sente un’eco della storia del suo Paese nel suo discorso, quando rievoca i metodi di con­trollo 'spietati' della libertà personale sotto il co­munismo, o quando pone con forza l’accento sul­la famiglia, 'prima educatrice'. Ma oggi il cardinale vede nella sua Budapest e nell’Est un nemico diverso dal totalitarismo, ep­pure non meno pericoloso. «Le giovani genera­zioni sono governate dall’edonismo, e in parti­colare dal piacere immediato, dall’attimo fug­gente. Questo sguardo incide duramente non so­lo negli affetti e nella costruzione delle famiglie, ma perfino nella capacità di portare a termine gli studi. Se l’unico obiettivo è una soddisfazione im­mediata, ben poche scelte reggono. In società co­me quelle dell’Est poi, dove è venuta a mancare una borghesia strutturata, l’esito di questo sguar­do alterato produce rapidamente anche corru­zione e delinquenza. Infatti molti governanti del-­l’Est, pur non essendo personalmente religiosi, vanno scoprendo ora che la tradizione religiosa è necessaria per mantenere una stabilità socia­le». Eminenza, però nell’Occidente con un passato democratico si allarga invece la pretesa laicista di costringere la religione in uno spazio indivi­duale, pubblicamente irrilevante. «È una pretesa che riconosco, anche se spesso mi sembra portata avanti, come in Italia, da frange radicali molto rumorose ma numericamente mi­noritarie. In realtà la popolazione, in Italia come nel resto d’Europa, non è così radicale. Resta il fatto che quest’ansia di rinchiudere la religione nel 'privato' è non solo inaccettabile, ma impossi­bile: una religione comporta uno sguardo com­plessivo sulla realtà, ed è quindi assurdo preten­dere che taccia su quanto ha rilevanza pubblica». Mentre in molti Paesi si fa largo l’idea di una il­lustrazione 'neutrale' delle varie confessioni, nel documento conclusivo della ricerca presen­tata qui a Strasburgo, i vescovi europei dichia­rano preferibile l’insegnamento scolastico ' a carattere confessionale'. Perché? «L’insegnamento della religione cattolica non può a mio avviso che essere confessionale: non si 'informa' l’alunno, lo si educa, in una trasmis­sione che coniuga parola e testimonianza. D’al­tronde, la pretesa di alcuni di poter fornire un punto di vista neutrale sulle diverse religioni mi pare in sé contraddittorio: nel momento in cui spieghi qualcosa cui non aderisci, fornisci già un giudizio implicito all’alunno. Non credo che la 'neutralità' di cui tanto si parla sia possibile». Mentre un certo laicismo estremo si preoccupa dell’insegnamento confessionale cristiano nel­le scuole, altri osservatori paventano l’avvento di una cultura islamica che si prepara a cancellar­ci… «Non condivido queste paure. L’avere paura è un segno caratteristico di identità religiosa debole». È una coincidenza o un disegno venire a parla­re all’Europa di insegnamento della religione, nei 60 anni del Consiglio? «Inizialmente può essere stata una coincidenza, però questo mi sembra il giorno e la sede giusta per dire all’Europa di guardare con fiducia alla ri­sorsa rappresentata dalla tradizione religiosa. Non è certamente da temere; una forte identità reli­giosa non porta, come alcuni temono, all’intol­leranza, ma al contrario a un confronto fattivo con il prossimo, con cui si dialoga a viso aperto e senza timori». Sembra però così difficile per gli europei mettersi d’accordo su ciò che li accomuna, su ciò che è 'naturale' e ciò che non lo è. Nella stessa catto­lica Italia il dibattito attorno al principio della vita e al modo della morte è da anni violento. «Io tuttavia sono ottimista perché come cristia­no sono convinto della possibilità di una cono­scenza naturale oggettiva delle cose essenziali della vita. E sono certo che attorno a questi beni essenziali si possa creare un consenso sociale condiviso». Ciò che è forse quanto una parte dell’Europa lai­ca domanda alle confessioni religiose, oggi. Co­me laicamente ha detto a Strasburgo monsignor Aldo Giordano, osservatore permanente della Santa Sede presso il Consiglio, una parte d’Euro­pa guarda con nuova curiosità a quella «dimen­sione politica» della religione «decisiva per la con­vivenza comune».
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