giovedì 30 gennaio 2014
​Il rapporto presentato a Roma. "Via il reato di clandestinità", chiudere subito i Cie e rivedere gli ingressi". 5 milioni gli  stranieri in Italia. Il reddito medio delle famiglie immigrate è metà di quello italiane.
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La crisi alimenta l’insicurezza e i pregiudizi. A farne le spese è il processo di integrazione, con contraccolpi sulla coesione sociale. Serve un cambio di rotta, visti gli scarsi risultati, che rimetta al centro i diritti fondamentali. Caritas e Migrantes chiedono una seria revisione della normativa sull’immigrazione, che passi per l’abolizione del reato di clandestinità, la chiusura dei Cie, la cittadinanza per i figli degli stranieri. Una riflessione che poggia sulle 345 pagine di dati e analisi del XXIII Rapporto sull’immigrazione 2013, presentato ieri dai due organismi pastorali, con la partecipazione del ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge e del senatore Luigi Manconi.«Crisi e diritti umani sono state quest’anno le chiavi scelte per il Rapporto», spiega il direttore della Fondazione Cei Migrantes, monsignor Giancarlo Perego. Perché la grave congiuntura economica «rischia di indebolire l’uguaglianza, la giustizia sociale, la tutela della dignità e dei diritti». Concorda il presidente di Caritas italiana, il vescovo di Lodi Giuseppe Merisi. «In un’Europa che barcolla sotto i colpi della crisi», molti Stati sono cercano di «varare normative sempre più restrittive e in alcuni casi in contrasto col dettato delle carte fondamentali. Motivo questo – sottolinea il presidente Caritas – che ci vede esprimere viva soddisfazione per il percorso parlamentare per un superamento del reato di clandestinità, come da sempre da noi auspicato».Quest’anno i ricercatori del Dossier hanno corretto l’approccio: «Il piano meramente quantitativo – dice Merisi – non è stato sufficiente da solo ad aiutare la società civile ed ecclesiale a prendere piena consapevolezza di questa complessità», se persistono «chiusura e ostilità che con la crisi sembrano aumentare». E allora ecco la nuova lettura «in chiave qualitativa», che «valorizza il lavoro delle diocesi» e si «avvale del «supporto qualificato di esperti». Da quest’anno poi il capitolo sui rifugiati sarà oggetto di un altro Dossier, di prossima pubblicazione.Dall’analisi emergono suggerimenti ai legislatori: per ottenere la cittadinanza va ridotto il numero degli anni richiesti, 18 per i minori e 10 per gli adulti. Basta con «l’anacronistico ius sanguinis» superato dalla maggior parte dei paesi a favore di uno ius soli che eviterebbe anche «il ricorso strumentale al matrimonio con italiani».Per i Cie se ne chiede la chiusura: «È evidente che la detenzione amministrativa non soddisfa se non in misura minima l’interesse al controllo delle frontiere». In realtà «assolve alla funzione di sedativo delle ansie di chi percepisce la presenza dello straniero» irregolare «come un pericolo». I dispendiosi Cie, insomma, «non rispettano le garanzie dei diritti costituzionali e non superano i test di ragionevolezza». E allora «la vera riforma del sistema dei rimpatri sarebbe la chiusura dei Centri» con l’identificazione degli stranieri pregiudicati in carcere». incentivi alla partenza volontaria, misure alternative come l’obbligo di dimora, la consegna dei documenti, la presentazione periodica alle autorità». Il crimine della tratta invece «chiede più investimenti in protezione sociale». Da non trascurare l’aspetto delle diverse fedi, che chiede «più ecumenismo e dialogo interreligioso».«Una riforma della cittadinanza oltre a essere una necessità è un’urgenza», sottolinea il ministro Kyenge che ribadisce il primato della via parlamentare. Il senatore del Pd Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani, plaude al Rapporto «che smonta i quattro grandi pregiudizi che dominano la percezione del fenomeno migratorio: "sono troppi, ci rubano il lavoro, è un’invasione musulmana, fanno crescere il tasso di insicurezza"». Ma Laura Zanfrini, sociologa della convivenza interetnica alla Cattolica, avverte: «Se gli immigrati non entrano in concorrenza sul lavoro con gli italiani è perché sono discriminati: abbiamo consentito che le retribuzioni scendessero sotto la soglia della dignità e oggi è povero anche chi un lavoro ce l’ha».
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