mercoledì 28 novembre 2012
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Giuseppe, venticinque anni passati qua dentro. Lo dichiara con un misto di orgoglio e rancore, perchè «io difendo il mio lavoro e la fabbrica che ci dà il pane ma delle polveri dell’Ilva papà ci è morto». Donato lavora alle acciaierie e abita a Tamburi; ha un ragazzino malato a casa. Si fa largo Gennaro, tessera della Uilm in tasca e tanti dubbi. Passi lenti, pudichi, quelli di migliaia di tute blu che ieri hanno varcato i tornelli incustoditi, per protestare, solidarizzare, o soltanto per entrare nella grande fabbrica.Sono operai ma sono soprattutto tarantini: l’Ilva per loro è una seconda casa, il sancta sanctorum delle generazioni, che hanno lavorato in queste officine e ai piedi di questi altiforni, abbandonando i campi per diventare, come si diceva sessant’anni fa, “metalmezzadri”. Adesso invece, confessa Antonio, «ad ogni piccolo dolore corri a farti vedere dal medico e guardi con sospetto e con paura la mano che ti dà il pane». Secondo la procura che ha messo le manette ai polsi di una delle ultime dinastie industriali italiane, in soli sette anni l’Ilva ha fatto più di undicimila morti, oltre seicento per le polveri sottili. Sarà per quello che lo sguardo di chi lavora, in uno dei pochi complessi industriali che macinano ancora utili, prima o poi scivola sempre verso i parchi minerari, le colline venefiche che ad ogni soffio di scirocco portano la morte nel rione Tamburi, e più in là. Credevano che l’Ilva fosse la loro Fiat, invece siamo a Bhopal, la città indiana che Dominique Lapierre ha trasformato nell’archetipo di tutti i disastri ambientali. Normale che scoppi la rabbia. Una fortuna che si fermi nel piazzale della Direzione, limitandosi a qualche urlo e a qualche slogan retrò.Com’è avvenuto ieri, davanti alla palazzina degli uffici. Alle nove, una folla di operai ha varcato i cancelli e ha assediato gli uffici al grido: «Niente lavoro, niente futuro». Contestazione a 360 gradi contro i Riva, il governo e soprattutto il sindacato per come ha gestito questa crisi. Una jacquerie fomentata dal gruppo dei “liberi pensatori”, scheggia della Fiom che predica, come dice uno dei leader, Cataldo Ranieri, «la fine delle organizzazioni verticali». Sia il sindacato che la società hanno deciso però di affrontare la piazza, rischiando un tuffo negli anni Settanta. Stefanelli (Fiom), Panarelli (Fim) e Talò (Uilm) sono stati assediati per quaranta lunghissimi minuti dagli operai, inferociti per essere stati sospesi dal lavoro con una semplice telefonata dei capireparto. I sindacalisti hanno giocato la carta dei risultati, rivendicando di aver ottenuto la garanzia che le giornate perse dai dipendenti per la decisione dell’azienda di bloccare le attività dell’area a freddo fino alla decisione del Tribunale del Riesame - chiamato a pronunciarsi sul dissequestro degli impianti - saranno regolarmente retribuite e che la procedura di cassa integrazione sarà sospesa fino a domani, quando le parti sociali incontreranno il governo.Il vertice romano è il redde rationem per gli undicimila di Taranto. Si saprà se vedrà la luce il decreto salva-Ilva: dovrebbe contenere una norma in grado di salvare capra e cavoli, cioè di far partire il risanamento dello stabilimento (quattro miliardi) senza interferire con l’obbligo dell’azione penale. Non è chiaro cosa ne pensi la società, che aveva presentato un cronoprogramma di lavori da dicembre, né i magistrati. Si sa invece che i lavoratori non si fidano e quando, ieri, i confederali hanno concluso il loro intervento chiamandoli a raccolta sono stati subissati dai fischi. È bastato annunciare che «i pullman per Roma sono pronti» e il dialogo con la piazza è tornato in alto mare. Poco prima, a sfidare la rabbia delle tute blu non sindacalizzate (circa la metà dei dipendenti) era sceso nel piazzale il direttore dello stabilimento Adolfo Buffo. Presentato dai manifestanti come «uno dei pochi dirigenti a non essere ancora in galera» (infatti è solo indagato nell’inchiesta che ha portato in carcere o ai domiciliari mezza famiglia Riva), è riuscito a impedire l’escalation violenta, assicurando anche lui che le giornate perse saranno retribuite, ma non a dissipare quel senso di ambiguità che ormai pesa come una cappa. Del resto, dopo settimane di blocco degli impianti, perizie e controperizie, e sequestro dei prodotti come “corpo del reato” che dovrebbe dimostrare il dolo dell’azienda nel proseguire le lavorazioni e quindi nel violare quella stessa Aia su cui il governo intende fondare il decreto salva-Taranto, insomma dopo tutto questo bailamme non doveva essere così semplice spiegare che quello di ieri era uno sciopero e non una serrata ma che sarà pagata ugualmente la giornata di lavoro persa, come se sciopero non fosse.L’accordo tra società e sindacati tarantini che mantiene la situazione dell’Ilva in bilico - il “rischio notevole” per l’ordine pubblico di cui parla uil ministro Anna Maria Cancellieri - è in realtà un mezzo accordo perché è ancora lontanissimo il piano industriale che vorrebbero i lavoratori per allontanare definitivamente lo spettro di una chiusura. Qualcuno propone allora di tornare all’antico: «è evidente che il tema dell’intervento pubblico è posto» ha detto il segretario fiommino Stefanelli. E dal fronte Usb si leva addirittura la richiesta di una «nazionalizzazione senza indennizzo». Ma questa, più che un rigurgito degli anni Settanta, sarebbe una deriva venezuelana.<+copyright>
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