giovedì 17 febbraio 2022
Il rito dell'autorizzazione a procedere e le paure vissute dai parlamentari a Roma
Il terrore che prese il Palazzo: «Sai se oggi toccherà a me?»

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«È arrivato qualcosa per me?». È la domanda che ogni giorno molti parlamentari facevano a noi cronisti che da Roma seguivamo il lato politico di Mani Pulite. Quel 'qualcosa' era un’autorizzazione a procedere, la richiesta che le procure, soprattutto Milano, inviavano al Parlamento per poter indagare su un deputato o un senatore. Un mare di carte che contenevano le 'confessioni' di imprenditori, amministratori, funzionari sul pagamento di tangenti ai politici. Il Parlamento ne fu letteralmente invaso.

Nell’XI legislatura, che durò appena due anni, dal 23 aprile 1992 al 14 aprile 1994, ne arrivarono ben 233. Nella legislatura precedente, che era durata cinque anni, dal 2 luglio 1987 al 22 aprile 1992, erano state solo 112. E non riguardavano Mani Pulite. Quelle di Milano le scriveva Piercamillo Davigo, con uno stile inconfondibile che andava oltre l’illustrazione giudiziaria.

Poi il 28 ottobre 1993, sulla spinta dell’opinione pubblica tutta pro-magistrati, venne approvata la legge costituzionale che abrogava l’autorizzazione a procedere. Una riforma che prendeva atto di un radicale cambiamento. Infatti nei mesi precedenti Camera e Senato avevano quasi sempre concesso l’autorizzazione a procedere. Mentre nel passato a dominare erano stati i «no». Ora lo si riteneva un privilegio.

A chiedere «è arrivato qualcosa per me?» non erano i big ma semplici parlamentari. C’era il giovane democristiano preoccupato perché per organizzare qualche convegno aveva usato dei soldi che gli aveva consegnato il tesoriere del partito. E ora temeva che fossero frutto di qualche tangente. C’era poi il 'peones' socialista che dal partito aveva ricevuto soldi per un giornaletto locale. «Ma io non sapevo da dove arrivavano». Corruzione? I pm milanesi ne erano convinti, anche se poi molte condanne furono solo per finanziamento illecito. Ma allora, in quei mesi, nel Transatlantico di Montecitorio si percepiva un misto di curiosità e paura. Quasi fosse ineluttabile che prima o poi toccasse a tutti.

Forse all’inizio qualcuno rimase deluso per non aver ricevuto nulla, come fosse poco importante. Ma quando le barriere di autotutela si abbassarono e tutti capirono che i processi sarebbero stati fatti, a dominare fu la paura. Che diventò terrore nell’aprile 1994 in vista della fine della legislatura. Il terrore di finire in manette, di 'una grande retata', come scrissero i giornali. Per 27 senatori e deputati la magistratura aveva chiesto al Parlamento l’arresto e si sapeva che altri si sarebbero aggiunti. E, in caso di non rielezione, non avrebbero più goduto della tutela costituzionale. Per questo quella domanda diventava sempre più pressante. Si voleva capire non solo se si era sotto inchiesta, ma soprattutto se si era a rischio manette. E chi, tra noi cronisti, riusciva ad avere in anticipo le richieste delle procure era il più interpellato. Avere fonti nelle giunte di Camere e Senato (magari qualche politico di piccoli partiti come Radicali e Verdi) era importante per avere le carte dei magistrati in originale, prima che fossero stampate. Scritte con qualche primo computer e addirittura con macchine da scrivere, sono oggi un pezzo di storia, allora preziosissime per 'bruciare' gli altri giornali. Ma anche per 'tranquillizzare' chi ogni giorno si svegliava come la gazzella del famoso proverbio africano temendo di essere preda del leone-Pm. «No, anche oggi non c’è nulla».

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