martedì 25 agosto 2009
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«Sul barcone, man mano che qual­cuno moriva, eravamo costretti a gettarlo in mare. Abbiamo visto altre barche ma non avevamo benzina per rag­giungerle. Non ci hanno aiutato». Inizia così il racconto della 29enne eritrea che dal letto dell’ospedale Cervello di Palermo, dove è ar­rivata nei giorni scorsi a bordo di un elisoc­corso del 118 partito da Lampedusa, ha con­fermato davanti alle telecamere l’ennesima tragedia del mare. Appare magra, anzi magrissima, la pelle del vi­so arsa dal sole e gli occhi stanchi. Nel corpo sono evidenti il trauma fisico e psicologico di 21 giorni trascorsi alla deriva tra le onde del Mediterraneo, sotto il sole cocente di giorno e avvolta dal freddo umido nella notte. Eppu­re accetta di parlare, si sforza di essere quan­to più chiara possibile, addirittura gesticola, perché è importante che la gente sappia, che si renda conto. Il suo racconto suona come una denuncia. Ri­pete che sul gommone c’erano una ottantina di persone, che i maltesi dopo 17 giorni di na­vigazione li hanno avvicinati e hanno dato lo­ro acqua, cibo e benzina. Per il resto non ag- giunge dettagli, e soprattutto non chiarisce cosa è successo nei quattro giorni successivi, se i maltesi li hanno scortati fino a Lampedu­sa o li lasciati andare. Punti cruciali, questi ultimi, nell’ambito del­l’inchiesta aperta dalla Procura di Agrigento, sui quali si continua ad indagare. «È stata u­na motovedetta a fornirci il carburante e a in­timarci di proseguire per Lampedusa. Ci han­no dato anche cinque salvagente. L’equipag­gio indossava pantaloncini corti e una ma­glietta di colore scuro. Uno di loro ha acceso il motore, perché noi non avevamo la forza per farlo, e ci ha indicato la rotta. Poi si sono allontanati senza aiutarci, malgrado le nostre condizioni», aveva raccontato un altro dei cin­que naufraghi appena soccorso dal pattuglia­tore della Guardia di finanza e arrivato a Lam­pedusa. Racconti che, a quanto pare, avreb­bero già trovato conferme nel ritrovamento di cinque salvagenti di fabbricazione italiana ma, pare, appartenenti alle autorità maltesi. Un dato di fatto che confermerebbe il contat­to tra il gommone e la motovedetta dell’isola dei Cavalieri, di cui hanno parlato i migranti dopo aver raccontato della morte dei 73 com­pagni di viaggio. Padri, madri, fratelli, cugini, amici, i cui corpi giorno dopo giorno sono sta­ti abbandonati tra le onde, in base al ritmo imposto dalla morte, soprat­tutto per inedia. Per fare chiarezza sulla vi­cenda, ieri sono iniziati ad A­grigento, in una struttura di accoglienza su cui viene mantenuto massimo riserbo, gli interrogatori dei soprav­vissuti alla traversata del Ca­nale di Sicilia: due uomini, due minorenni e la giovane donna. A sentirli il sostituto procuratore Santo Fornasier, titolare dell’inchiesta assie­me al capo dell’ufficio Rena­to Di Natale. Intanto, seppu­re si tratta di “un atto dovuto” in base alla normativa recen­temente introdotta dal governo, sempre ieri, dalla Procura hanno fatto sapere che i cinque eritrei saranno iscritti sul registro degli inda­gati per il reato di immigrazione clandestina. In serata, la precisazione del prefetto Mario Morcone, capo del Dipartimento per l’immi­grazione del Viminale: «I cinque eritrei non ri­schiano nulla se presentano la richiesta di a­silo che, generalmente, per i Paesi in partico­lari situazioni di disagio viene accolta».
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