martedì 27 maggio 2014
E lancia un piano keynesiano per l'Unione da 150 miliardi.
Il giudizio e le attese  di Marco Tarquinio
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Il traguardo delle riforme più vicino, la possibilità di «cambiare verso» all’Europa. Renzi e Napolitano si sentono di buon mattino: l’umore è positivo, inutile negarlo, anche se i due sono troppo accorti per lasciarsi prendere dal facile entusiasmo. C’è anche un filo di incredulità: «Non mi aspettavo questi risultati, l’ultimo sondaggio ci dava al 33 per cento», confessa il premier. La novità è che, dopo quasi tre mesi di coabitazione non sempre serenissima, l’asse Palazzo Chigi - Colle è tornato granitico. I fini convergono, i tempi anche: chiudere l’Italicum entro l’anno, ottenere la prima lettura del nuovo Senato entro giugno - il primo luglio l’Italia assume la presidenza semestrale dell’Unione europea -. E così si consentirebbe al capo dello Stato di chiudere il 2014 sentendo assolti parte degli impegni assunti nel giorno in cui ha accettato il secondo mandato. Ma è dell’Europa che i due, Renzi e Napolitano, hanno parlato in lungo e in largo. «L’Italia è centrale», è la convinzione emersa dal voto. Concetto ribadito nei colloqui pomeridiani del premier con Merkel, Hollande e Cameron. «Le nuove cariche? Non ci è precluso nessun obiettivo, possiamo avanzare proposte anche sulle posizioni di vertice e che davvero orientano la politica comunitaria», spiega Renzi ai fedelissimi facendo il punto. Per il premier, le scelte su presidente di Commissione, leader dell’Eurogruppo, guida del Consiglio Ue, dicastero degli Esteri e vertice del Parlamento di Strasburgo sono strettamente collegate. In una di queste cinque caselle l’Italia vuole esserci, e ieri da Palazzo Chigi trapelava anche la disponibilità a rimettere in gioco il nome autorevole di Enrico Letta. Il progetto di rifondazione dall’interno dall’Ue è ambizioso, e ha un obiettivo concreto da raggiungere entro l’autunno, prima della legge di stabilità: riscrivere la regola del 3 per cento, escludendo la spesa per investimenti produttivi (non solo scuola e ricerca) e la quota di cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali (183 miliardi compresi quelli ancora da spendere). Misure che fanno parte, spiega il premier da Bruno Vespa, di un possibile «piano keynesiano dell’Ue da 150 miliardi». «Se arriviamo con le riforme fatte – spiega –, nessuno ce lo potrà negare, e anche Merkel sa che bisogna cambiare». Un piano che ha anche una benedizione prestigiosa, quella di Tony Blair, l’idolo di Renzi: «Il successo di Matteo è di leadership e visione». Quanto alle riforme, l’accelerazione sarà brusca sin da giovedì, quando il Senato riprenderà tra le mani il testo-base della riforma costituzionale. Contemporaneamente, giovedì il Cdm dovrebbe presentare i primi decreti attuativi della delega fiscale (attesa anche per il testo sul quoziente familiare promesso in campagna elettorale) e nominare il successore di Befera alle Entrate e a Equitalia. In ballo c’è anche un decreto sull’agricoltura. Quanto alla tenuta del patto con Berlusconi sull’Italicum, Renzi ieri si mostrava sicuro. La soglia del 37 per cento per il ballottaggio ora non spaventa più il Pd, il partito è più coeso e abbassare dal 4,5 al 4 la soglia minima non è un grande problema per il premier. La richiesta del Cavaliere di riportare l’asticella al 35 sarà respinta. «Esitare, tornare alle meline, ridarebbe fiato a Grillo», insiste. E in tal caso, verrebbe messa sul tavolo l’arma del voto anticipato.

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