sabato 20 settembre 2014
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«Hanno la sensazione che io sia più debole, e mi attaccano. Ma lo dicono a Cernobbio che sono debole, nei salotti romani che frequentano loro, lo dicono i professionisti della tartina... E si illudono perché non vedono che il Paese è con me, che vuole cambiare. Anche il partito alla fine mi seguirà. Bersani dice che in Aula darà battaglia? Ma Speranza non è sulla stessa linea, Orfini nemmeno. Faremo la conta e vedremo... ». Leggendo alla rovescia il videomessaggio inviato alla Cgil di Susanna Camusso, è forte la sensazione che Matteo Renzi abbia voluto mandare un ultimatum alla sinistra Pd. Nemmeno cita Bersani e Fassina, il premier. Eppure chi ha passato con lui tutta la giornata assicura che tra le mani ha torturato una dichiarazione dell’ex segretario: «La corda si può spezzare, è possibile ma spero di no...». «Cos’è, una minaccia? », si sfoga Renzi. «Davvero vogliono provare a mettere in minoranza il governo al Senato sul jobs-act?», si chiedono gli sherpa del premier per tutta la giornata. La risposta è «no», questo pericolo non esiste. E i margini per trovare nuove sintesi senza tradire l’impianto generale ci sono. «Devono stare attenti loro a non tirare la corda, se Matteo si presenta davanti al Paese dicendo che bisogna andare al voto perché Bersani gli blocca le riforme, quell’area rischia grosso», ribaltano la  minaccia i fedelissimi del premier. Dunque la certezza è che la riforma al Senato passerà, costi quel che costi, ed entro l’8 ottobre, giorno del vertice Ue sul lavoro ospitato a Milano. Se occorrerà mettere la fiducia alla legge-delega, si farà. Se occorrerà passare al decreto, lo si farà. Ma l’altra certezza è che sul lavoro non dovrà essere necessario il soccorso azzurro di Forza Italia. «I gruppi parlamentari si adegueranno alla votazione che faremo nella direzione ad hoc del 29 settembre», dicono i renziani in coro. Per il premier portarsi dietro il Pd in questa partita è vitale, se i gruppi parlamentari del suo partito mettono veti andare alle urne sarà inevitabile. Ma davvero il premier affronta questa sfida senza paure o esitazioni? Non è proprio così. Renzi è il primo a sapere che non basterà il jobs act a sconfiggere la disoccupazione. L’ha detto a Bruxelles e a Mario Draghi in tutte le salse. Cambiare le regole serve, ma nel breve periodo l’ossigeno sono gli investimenti. Perciò, in cuor suo il premier spera di evitare quella mobilitazione sindacale di massa che trasformerebbe ottobre in un inferno. «In pieno semestre Ue non possiamo dare l’immagine di un Paese che si paralizza non appena si prova a cambiare», è il passaparola che inquieta Palazzo Chigi. Dunque il momento di mediare arriverà. Non ora che gli schieramenti stanno mostrando i muscoli. Più avanti, a ridosso della direzione e della presentazione degli emendamenti per l’Aula. Prima c’è il lungo viaggio negli States tra Silicon Valley e Bill Clinton, start-up italiane e Consiglio Onu, scambi con l’alta finanza e visita alla sede Fiat Chrysler di Detroit: il tour nella patria della flessibilità darà mille opportunità per continuare a stangare i «conservatori». Lo schema della mediazione in extremis Renzi l’ha già usato con la riforma del Senato: allora isolò con durezza Mineo & co, poi mise i suoi a fare sintesi. Anche stavolta si lavorerà in questa direzione: prima far sembrare le posizioni di Fassina e Bersani anacronistiche, e poi lavorare di cesello. D’altra parte nessuno ha detto che il reintegro ex articolo 18 è espulso per sempre dalle tutele: quello è l’obiettivo massimo, non l’approdo sicuro. Di certo le idee del premier sul punto non sono più in dubbio: nella squadra di consiglieri economici (a titolo gratuito) scelta ieri Fortis, Santore, Perotti, Gallo, Gutgeld, Luna, Barberis - non c’è nessuno che si farebbe incatenare per il reintegro.
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