martedì 26 giugno 2012
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​Charles è arrivato in Italia da un Paese africano francofono e ha avuto il riconoscimento dello status di rifugiato. Ma non ha mai trovato pace, è stato torturato – oggi ha una gamba atrofizzata – perché era un oppositore del governo e ha un buco nell’anima. Aveva infatti moglie e due bambine, un buon lavoro ed era un uomo attivo. È fuggito per salvarsi la vita, ma ha perso famiglia, identità e la disabilità lo deprime. Prova a lenire i suoi traumi la Caritas di Roma con il progetto "Ferite invisibili", riconosciuto dall’Alto commissario Onu per i diritti umani come servizio della "Rete sovranazionale di sostegno e cura alle vittime di tortura", delle quali oggi si celebra la giornata mondiale. E il cui numero cresce, secondo il rapporto 2012 di Amnesty International: maltrattamenti e torture sono infatti pratica abituale in oltre 100 Paesi. Sono soprattutto richiedenti asilo e rifugiati ad averla subita: si stima che uno su quattro abbia patito violenze intenzionali e soffra di forti stress post-traumatici. Poiché l’anno scorso sono arrivate nel Belpaese poco meno di 60mila persone in cerca di asilo, sono quasi 15mila ad avere bisogno di cure. «Il progetto – conferma il responsabile dell’area sanitaria della Caritas romana Salvatore Geraci – dedica specifica attenzione e sostegno a immigrati o rifugiati che abbiano subito traumi psicologici e sociali. Che con la tendenza all’aumento dei richiedenti asilo nel mondo, sono destinati a crescere anche in Italia». L’équipe è formata da psicoterapeuti, psichiatri, mediatori culturali, infermieri, medici. In quasi 7 anni ha preso in carico 183 pazienti. Nei primi 3 mesi del 2012 ne ha seguiti 49, di cui 18 nuovi. Fino al 2010 i pazienti provenivano soprattutto da Afghanistan, Guinea, Nigeria ed Eritrea. Nel 2011 la geografia della tortura ha visto avanzare Costa d’Avorio e Camerun. Un paziente su cinque è donna. «L’aiuto – chiarisce Geraci – consiste anzitutto nel far riconoscere l’orrore vissuto e le ferite psichiche, affinché queste persone possano riappropriarsi della dignità, dare un significato alla loro esperienza e progettare un futuro. Nel contempo si cerca di costituire una fitta rete socio-assistenziale per favorire percorsi di integrazione». Sostegni parziali del progetto sono garantiti dall’8x1000 della Chiesa cattolica. "Ferite invisibili" è uno dei punti di forza di un sistema che presenta carenze nell’accoglienza e integrazione dei rifugiati. Secondo una ricerca curata da Caritas italiana ed Asgi, e presentata ieri a Roma, manca una programmazione nazionale che vada oltre l’emergenza e si affidi ai territori, superando la logica dei grandi Centri di accoglienza, perlopiù strutture dismesse riadattate. Così il 60% dei rifugiati una volta avuto il permesso si trova abbandonato sulla strada e vive in stabili fatiscenti occupati. Chi ha subito torture è ancor più vulnerabile. Conferma le critiche della ricerca la vicenda paradossale del Nirast, network pubblico di vittime di tortura di 10 ospedali italiani, considerato buona prassi dall’Ue. Ne era capofila fino all’1 marzo l’ambulatorio del San Giovanni di Roma, chiuso ufficialmente per motivi di costi nonostante la spesa annuale si aggirasse sui 30mila euro. Ora non si sa quanto potrà durare la rete nazionale senza l’ambulatorio romano, la cui chiusura ha provocato gravi problemi ai pazienti in cura (in larga parte rifugiati) e nelle commissioni territoriali, che spesso chiedono l’intervento del San Giovanni per stabilire se un richiedente sia stato o no torturato. La Regione Lazio si è detta disponibile a spostare il centro in un altro ospedale, ma finora i buoni propositi non si sono concretizzati.
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