
C’è una scala mobile rotta sulla quale ogni famiglia italiana si prodiga per cercare quanto meno di reggersi in piedi. A fatica prova ad andare verso l’alto, ma sulle loro gambe c’è come un elastico. Man mano che cercano di salire, questa si tende e una volta a metà di quella scala la spinta verso il basso si fa insostenibile, tanto da cadere giù. Nel nostro Paese è plausibile che sia così per almeno 10 famiglie su 100. La chiamano “erosione” del ceto medio, ma per la rapidità con la quale in soli quattro anni le famiglie italiane si sono impoverite, scivolando verso il basso, non è ardito chiamarla “sgretolamento”. La definiscono così le Acli, commentando la nuova ricerca Iref Acli. “Sempre meno ceto medio”, presentata oggi alla vigilia della Giornata internazionale della famiglia e dedicata al reddito delle famiglie italiane: «Il ceto medio si sta sgretolando, la ricerca Iref Acli non lascia molto spazio ai dubbi. C’è uno scivolamento del ceto medio, e quindi di coloro che hanno anche un lavoro, verso la povertà».
Lo studio è stato realizzato sulla base di dati rigorosamente anonimi forniti dal Caf di circa 550 mila nuclei familiari riferiti a cinque anni fiscali consecutivi (2020-2024). I numeri dimostrano con chiarezza che in Italia è molto più facile impoverirsi che arricchirsi, anche se si lavora. Se da una parte il 10% delle famiglie del panel preso in esame è passata dal ceto medio all’ inferiore, dall’altra, viceversa, solo lo 0,8% è riuscito a salire da quello medio al superiore. Le famiglie italiane sono dunque sempre più povere e il ceto medio, quello che nel 2024 ha un reddito tra 22.529 e 60.078 euro, è sceso dal 59,6% del 2020 al 54,9% dell’ultimo anno. Considerando anche i valori assoluti del Panel Redditi Acli, vuol dire che questo declino verso la povertà, dopo la pandemia, ha riguardato oltre 55 mila famiglie solo tra quelle prese in esame. Un altro 2% (10.992 nuclei) ha subito un declassamento dal ceto superiore a quello medio. In poche parole, una famiglia su otto negli ultimi quattro anni ha fatto esperienza di una compressione del reddito disponibile.
Questa dinamica contrae la fascia intermedia della popolazione e acuisce le disuguaglianze. «La crisi non solo ha eroso i redditi, ma ha anche allargato la forbice tra le aree del Paese e tra le fasce sociali – hanno spiegato le Acli –. Servono politiche strutturali che riescano ad aumentare il valore reale dei salari e bisogna garantire tutela dell’esercizio dei diritti fondamentali». La ricerca mette infatti in luce una serie di squilibri che si sono accentuati proprio negli ultimi anni. In particolare, il gap tra le famiglie che vivono in grandi città e quelle delle aree interne. Le prime dichiarano redditi medi superiori del 17% rispetto alle seconde. La differenza maggiore si vede tra i nuclei più ricchi, che hanno un gap di reddito fino a oltre 9.000 euro annui passando dalle aree interne alle città: un divario che si ritrova a prescindere da composizioni familiari, livelli di impegno nel mercato del lavoro e carichi. I redditi bassi, invece, non variano in modo significativo spostandosi dalle aree marginali a quelle urbane. Segno che la condizione economica del nucleo è condizionata da altri aspetti, rispetto ai quali neppure la geografia può fare grande differenza.
C’è un ultimo aspetto che mostra le conseguenze di questa forbice sempre più larga. Come avvertono ancora le Acli, «rischiamo che alcuni pilastri fondamentali del nostro Stato, come la salute, non siano più un diritto ma una scelta». Lo mostrano chiaramente i dati sulla spesa sanitaria che riflettono chiaramente le disuguaglianze tra le famiglie povere rispetto alle più abbienti, che spendono in media fino a quattro volte di più per le cure. I nuclei con redditi intermedi sono più simili alle famiglie povere di quanto non lo siano a quelle ricche. Le detrazioni per spese sanitarie sono dunque altamente correlate al reddito. La tipologia familiare che porta in detrazione l’importo maggiore sono le coppie bireddito senza carichi familiari: la salute sembra essere diventato un bene di consumo come un altro. Il rischio, insomma, è che da diritto universale diventi un privilegio. «Parliamo di numeri veri e non di campioni, con un raffronto reale lungo cinque anni fiscali che ci offrono davvero una delle immagini più dettagliate disponibili sullo stato dei redditi reali nel nostro Paese – ha aggiunto Lidia Borzì, delegata per la Famiglia e gli Stili di vita delle Acli Nazionali –. Questo impoverimento del ceto medio rischia anche di influenzare i dati già drammatici, sulla denatalità». In altre parole, come ha invece commentato il direttore dell’Iref Gianfranco Zucca, «la ricerca restituisce una fotografia inedita e preoccupante. Conferma come il ceto medio sia sempre più fragile, stretto tra difficoltà economiche persistenti e scarse opportunità di mobilità ascendente».