lunedì 24 ottobre 2022
Parla Sandra Gesualdi, vicepresidente della Fondazione Don Lorenzo Milani, nonché figlia di uno dei ragazzi di Barbiana
Il 5 novembre saremo tutti in piazza. Nel nome di don Milani

Ansa

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Era il 1965 quando don Lorenzo Milani affermò che, di fronte alla minaccia nucleare, «la guerra difensiva non esiste più» e «non c’è più una guerra giusta né per la Chiesa né per la Costituzione, perché è in gioco la sopravvivenza della specie umana». Da allora sono passati più di cinquant’anni, eppure quelle parole suonano sempre più come un monito di fronte a ciò che sta accadendo oggi. È quanto sottolinea Sandra Gesualdi, vicepresidente della Fondazione Don Lorenzo Milani, nonché figlia di uno dei ragazzi di Barbiana. Con padre Bernardo Gianni, don Andrea Bigalli e altri, nelle settimane scorse ha lanciato un appello a non votare i candidati alle ultime elezioni che non si impegnassero esplicitamente a ridurre le spese militari. «Che non sia possibile fermare la guerra con le armi mi sembra un ragionamento di una banalità assoluta», ci dice.

Il 5 novembre scenderete in piazza anche nel nome di don Milani.
Sì, il priore diceva sempre che ognuno di noi deve sentirsi responsabile di tutto e quindi farsi carico di un pezzettino di mondo. Adesso più che mai dobbiamo esserci, anche con i nostri corpi. È fondamentale che la società civile si faccia sentire perché la politica, sia quella nazionale che internazionale, non ha saputo dare risposte a questa guerra. Si è limitata soltanto a incrementare l’invio di armamenti.
Anche papa Francesco, nella Fratelli tutti, ha ribadito che non possiamo più pensare alla guerra come soluzione.
Mi ha colpito molto che nell’Angelus di qualche settimana fa si sia rivolto direttamente a Putin, supplicandolo di fermare questa spirale di violenza e di morte anche per amore del suo popolo. D’altra parte, Francesco è stato l’unico capo di Stato che fin dall’inizio delle ostilità ha avuto ben chiaro che la guerra dovesse cessare subito, a chiedere uno stop all’invio di nuovi strumenti bellici. E a pronunciare quella frase, «Tacciano le armi», che poi è diventata uno degli slogan della manifestazione del 5 nazionale a Roma, alla quale ovviamente ha aderito anche la nostra Fondazione. In fondo l’educazione alla pace era uno dei pilastri della scuola di Barbiana.


Voi vi siete mobilitati fin dall’inizio della guerra con marce, appelli e momenti di riflessione e di preghiera interreligiosa. Eppure rispetto al 2003, quando tutto il mondo scese in piazza per cercare di fermare l’attacco statunitense all’Iraq, adesso la società civile ha stentato a mobilitarsi, pur di fronte al rischio di un conflitto nucleare. Come se lo spiega?
Me lo spiego con l’insofferenza per il peggioramento delle condizioni di vita delle persone. Più si sta male e più si diventa individualisti, e negli ultimi vent’anni sia il nostro tenore di vita che il nostro livello culturale sono peggiorati. E quindi si fa sempre più fatica a pensare in modo collettivo, a capire che se c’è una guerra alle porte dell’Europa ci tocca tutti e porterà discriminazione e impoverimento a livello globale.

Ha pesato anche il fatto che il dibattito pubblico sia stato avvelenato fin da subito, facendo passare la richiesta di uno stop alla guerra attraverso la diplomazia come una resa di fronte all’aggressore?
Sicuramente continua a essere molto difficile far capire ad alcuni che pacifismo politico non significa equidistanza. Ma visto che centinaia di gruppi, di associazioni e anche qualche partito hanno già aderito alla manifestazione del 5 novembre, penso che ci sia stata una riflessione promossa anche dal mondo cattolico, che di solito riesce ad avere maggiore spirito critico anche dal di fuori dei blocchi partitici.

Ha visto qualche apertura in tal senso?
Forse il perdurare di questo conflitto e i rischi sempre maggiori di un’escalation hanno convinto qualcuno che continuando in questo modo non si va da nessuna parte. Mandare le armi è una scelta facile, di comodo, ipocrita. Ma illudersi di costruire la pace con le armi significa rinunciare alla politica. La pace fa paura perché rappresenta una strada molto più difficile, a lunga scadenza, che richiede un’educazione profonda, un percorso di costruzione coerente, individuale e collettivo. E prevede di mettere in discussione ogni giorno i nostri modelli di vita egoistici.

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