sabato 22 agosto 2009
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Prima ancora delle convenzio­ni internazionali sull’interven­to umanitario e la navigazio­ne, è l’antica tradizione marinara a imporre ai natanti il soccorso quan­do incrociano un’imbarcazione in difficoltà. Ma sull’etica del mare og­gi prevale la politica. E la paura che incutono ai governi le centinaia di migliaia, forse i milioni di potenziali richiedenti asilo che fuggono dal Cor­no d’Africa come dal Sahel e, dalle coste nordafricane, premono per en­trare in Europa. Ma l’Ue, che pure u­niforma verso l’alto il diritto d’asilo a colpi di direttive, ritiene più scomo­di i profughi dei migranti economi­ci. E così cerca di scoraggiare in ogni modo il loro arrivo. «Infatti, secondo me, la regola del soccorso in mare non viene messa in discussione nella vicenda rac­contata dai cinque eritrei superstiti ritrovati al largo di Lampedusa. Sem­mai, da questa storia emerge il vero problema che attraversa l’Europa. Un problema politico, nessuno vuo­le più accogliere chi ha diritto di chiedere asilo». Il professor Ennio Codini insegna di­ritto pubblico alla Cattolica, a Mila­no, ed è inoltre responsabile giuridi­co della Fondazione Ismu, promos­sa dalla Fondazione Cariplo, che si occupa di immigrazione e multicul­turalità. Proviamo a capire con lui quali obblighi aveva chi ha incrocia­to questo barcone alla deriva nelle tre settimane in cui ha percorso il Mediterraneo dalla Libia alla dispe­rata ricerca della salvezza sulle co­ste italiane. «Quanto sappiamo lo abbiamo ap­preso dalla testimonianza di una per­sona salvata in mare. Quindi andranno compiute necessarie verifi­che. Per quanto riguarda i pesche­recci e le imbarcazioni private, sus­sistono obblighi di intervento solo in caso di avvistamento di naufraghi in acqua. Insomma, le imbarcazioni do­vevano capire che il gommone con a bordo gli eritrei stava andando alla deriva. Ma non è detto che tutti ab­biano capito in che condizioni ver­sava. Diverso il caso per chi ha por­tato cibo ai superstiti. Hanno salva­to loro la vita, ma, una volta resisi conto che il canotto non era più go­vernato, avevano il dovere di avvisa­re la guardia costiera». Ieri si è parlato delle responsabilità delle autorità maltesi, che hanno giu­stificato il mancato intervento di­cendo che avrebbero avvistato il ca­notto, ma i cinque a bordo erano in buone condizioni di salute. «Se è vero, i maltesi dovevano recu­perarlo e mettere in salvo i naufra­ghi. L’accordo con l’Italia è preciso. E se chi è in pericolo si trova in acque internazionali, si segnala la sua pre­senza all’autorità più vicina. Finora la cooperazione tra Italia e Malta an­dava migliorando. Ma in generale il problema non sta nella tradizione di questa o quella marineria. Sono con­vinto che le marine militari dei pae­si europei affacciati sul Mediterraneo non abbiano cambiato gli usi. Il pro­blema è l’accoglienza degli Stati. I quali scoraggiano l’ingresso nei por­ti dei potenziali richiedenti asilo in fuga da Eritrea, Somalia, Ciad, Niger o Nigeria. Lo fanno gli italiani, i mal­tesi, i greci, gli spagnoli e i francesi. Perché i richiedenti asilo sono, al­meno sul breve termine, più costosi dei migranti economici e non porta­no consensi politici. E le statistiche dimostrano che i potenziali rifugiati scelgono le rotte mediterranee e ne­gli ultimi anni sono in aumento». Però l’Ue ufficialmente si è dotata di recente di una normativa comune e ha innalzato gli standard di acco­glienza per rifugiati. «Lo scopo è evitare disparità tra membri. Se, ad esempio, la legisla­zione italiana è peggiore di quella te­desca, i rifugiati andranno tutti in Germania. Peccato che non si tenga conto della posizione geografica. Og­gi abbiamo norme comuni, ma i pae­si rivieraschi sono più esposti». Codini non è ottimista sull’accordo tra Italia e Libia. «È appurato nella comunità giuridi­ca che in sé l’accordo viola le con­venzioni umanitarie. Si può respin­gere, ma i potenziali rifugiati non possono venire respinti da uno Sta­to, come l’Italia, aderente alla Con­venzione di Ginevra, verso uno che non l’ha ratificata. La soluzione per non infrangere la legge internazio­nale umanitaria poteva essere la creazione in Libia di postazioni ge­stite dal governo e dall’ufficio Onu per accertare identità e valutare le ri­chieste dei rifugiati. In concreto fi­nora non si è fatto nulla. Del resto non si può imporre lo stato di diritto dove questo non c’è». E l’Europa, che pare spettatore in­differente delle tragedie del Mediter­raneo, cosa può fare? «Promuovere la mobilità dei rifugia­ti tra stati membri. Badi bene, non può costringerli a cambiare Paese forzatamente. In questo senso si po­trebbero stringere accordi tra paesi continentali e rivieraschi. Ma nes­sun governo ha la forza politica per far digerire all’opinione pubblica l’arrivo di quote supplementari di profughi». Che ora sono diventati nel mondo ci­vile cittadini di terza serie.
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