sabato 22 agosto 2009
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In mano ha cinque euro. Haile saluta educata­mente e sparisce nelle vie della “piccola Asmara” di Milano. Torna dopo una mezz’ora, per riprendere una conversazione interrotta. «Lei piange, piange sempre. Da un anno si trova in Libia e non ha nessuno che la aiu­ti. E in Libia è molto difficile per le donne» . Il pensiero della sorella, appena diciot­tenne, lo porta lontano per qualche minuto. Poi ripren­de a parlare. Racconta del suo Paese, del­l’Eritrea. Dei motivi che lo hanno spinto a fuggire, nel 2002, e che lo hanno portato dopo sette anni di sofferen­ze, ad arrivare in Italia, dove ha ottenuto un permesso di soggiorno per motivi uma­nitari. Come lui sono fuggiti Omar, Salomon, Gabriel. Tutti giovanissimi, poco più che ventenni, in fuga da un Paese che il presidente Isayas Afeworki ha trasformato in un enorme accampamento militare. In fuga da un Paese che, ai propri figli e alle pro­prie figlie, non offre altro che la possibilità di imbracciare un fucile. «Sawa», è la parola che ricor­re più frequentemente nei lo­ro ricordi. «È un enorme campo di addestramento mi­litare poco distante dal con­fine con il Sudan – racconta Omar, 24 anni e inglese fluen­te – tutti i giovani devono an­dare lì per completare gli stu­di superiori. E allo stesso tempo c’è l’addestramento militare». Sveglia all’alba e poi due ore di corsa, questo l’ini­zio della giornata tipo a Sawa, poi esercizi e marce, infine lo studio. «È durissima – ag­giunge Omar – in quella zo­na le temperature raggiun­gono i 40 gradi. Le donne sof­frono tantissimo». Già perché alla naja imposta da Afeworki non sfuggono nemmeno le ragazze. Ci si entra presto, verso i 15­16 anni e dopo il training di Sawa inizia il servizio milita­re vero e proprio: dai 18 anni fino ai 40 per gli uomini, e fi­no ai 27 (almeno) per le don­ne. Senza eccezioni, sparpa­gliati sui confini “caldi” con il Sudan o l’Etiopia e spesso sottoposti ai lavori forzati co­me ha denunciato Amnesty International. «Chi cerca di scappare e viene ripreso fini­sce in carcere – precisa Haile – chi tenta di evitare il servi­zio militare finisce in carce­re ». Non ci sono licenze, non ci sono permessi «puoi vede­re la tua famiglia solo per 15 giorni all’anno, ti sembra giu­sto? », chiede Omar. Quale futuro può esserci in un Paese ridotto alla fame, in cui il carburante è razionato e i negozi sono vuoti? Sempre Amnesty International de­nuncia una situazione allar­mante: circa metà della po­polazione eritrea vive « in condizioni di sottonutrizio­ne costretti a dipendere da­gli aiuti alimentari interna­zionali ». Non esistono giornali indi­pendenti, né i partiti di op­posizione, i missionari stra­nieri sono stati allontanati (nel novembre 2007, a 14 re­ligiosi italiani non venne rin­novato il permesso di sog­giorno, ndr ) e non esiste nes­suna forma di attività della società civile. Persino profes­sare la propria fede è molto difficile. Il governo infatti punta a controllare ogni co­sa, anche l’autonomia degli organismi religiosi. «Nel 2006 il patriarca della Chiesa orto­dossa eritrea è stato arresta­to. Apparentemente c’è li­bertà di religione, nessuno ti impedisce di pregare, ma il governo arresta chi non ac­cetta le sue imposizioni», spiega M., un sacerdote di appena 25 anni, fuggito pro­prio per difendere il suo di­ritto «a pregare Dio e dire al­la gente quello che ha detto Gesù Cristo. Ma in Eritrea non puoi farlo». Non raccon­ta i perché della sua fuga e non vuole che il suo nome venga reso noto «per non mettere in pericolo i miei a­mici che sono rimasti ad A­smara ». «Non abbiamo futuro», con­clude Omar con rabbia. Me­glio rischiare la vita nel Saha­ra o sulle carrette del mare, che restare. Da Sawa, tre gior­ni di marcia verso il Sudan, poi 15 giorni nel deserto, fino a Tripoli. Un pedaggio di 500 euro ai trafficanti di uomini e poi il salto del Mediterraneo, verso Lampedusa. Alza tre di­ta: «Ibrahim, Abdul, Omar. E­rano miei amici e sono mor­ti in mare».
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