sabato 31 agosto 2019
L'attore compie 70 anni. «Quando mi hanno spiegato del Decreto sicurezza, ho voluto salire sulla nave. Cerco pubblicità? Non ne ho bisogno. Bisogna alleviare le sofferenze di tutti»
L'attore Richard Gere sulla nave Sea-Watch (Ansa)

L'attore Richard Gere sulla nave Sea-Watch (Ansa)

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Richard Gere compie oggi 70 anni. La sua prima parte importante in un film, In cerca di Mr. Goodbar, l’ha avuta nel 1969, l’anno di Woodstock. «Volevo andarci, ma ho preferito guadagnare i miei primi soldini». Il grande successo arriva negli anni 80 e 90, con una serie di film controversi per i messaggi che trasmettono sulla donna e sulla sessualità: American Gigolò, Ufficiale e gentiluomo, Pretty Woman. Il suo impegno politico e sociale comincia presto: negli anni 70 assieme ad altre migliaia di giovani sposa le battaglie per i diritti civili e delle minoranze etniche, poi incontra il Dalai Lama, di cui diventa seguace e sostenitore.

Nel 1993 durante la cerimonia degli Oscar da lui presentata, accusa la Cina di compiere «azioni orribili» in Tibet. Da allora viene "emarginato" dalle grandi produzioni di Hollywood, oramai dipendenti dai capitali cinesi. Nel 2016 produce il docufilm Gli invisibili, dedicato ai senzatetto.

Lo abbiamo incontrato al ritorno dal suo blitz sulla "Open Arms", la nave dell’Ong spagnola Open Arms, una delle associazioni – le più note sono Tibet House e Survival International – che si occupano dei diritti delle minoranze e dei più disagiati che Richard Gere da anni appoggia e finanzia.

Come le è venuto in mente di sposare la causa di Open Arms? Molti l’hanno accusata di essere la solita star in cerca di pubblicità, tra un cocktail e una gita in motoscafo d’altura...
Guardi, ho settant’anni suonati, un discreto conto in banca e diciamo che sono abbastanza famoso. Inoltre, sono appena diventato padre di uno splendido bambino, al quale dedico volentieri tutto il mio tempo libero. Secondo lei, ho bisogno di pubblicità? Non solo non ne ho bisogno, non la cerco nemmeno.

Perché allora ha deciso di salire a bordo della "Open Arms"?
Perché da buddhista non posso non fare qualcosa per alleviare la sofferenza, ovunque essa sia. Seguo da tempo gli insegnamenti del Dalai Lama, di cui sono umile seguace e convinto sostenitore. So che ho fatto e sto facendo la cosa giusta... ci sono esseri umani che soffrono, che scappano da orrori e torture. E per fortuna ci sono "angeli" che tentano di salvarli. Bene. Io sto dalla parte degli angeli, come dovremmo essere tutti.

Il Dalai Lama in una recente intervista alla Bbc ha messo in guardia contro i pericoli dell’immigrazione: l’Europa non può permettersi di essere invasa dall’islam, bisogna aiutarli a casa loro...
Non so in quale contesto abbia detto, se le ha dette, queste parole. Io so solo che c’è un’emergenza, che ci sono persone che hanno bisogno di aiuto immediato e che questo aiuto va dato. Punto. Poi, non che sia importante, ma a bordo della "Open Arms" l’80% dei rifugiati era cristiano...

Che cosa l’ha portata a bordo, lei era qui in vacanza...
Sì, ero in vacanza, vengo spesso in Italia, un Paese che adoro, ma che ho trovato profondamente cambiato... Una mattina, un mio caro amico, Fabrizio Pallotti, ex monaco, interprete e traduttore ufficiale del Dalai Lama, è venuto a trovarmi e mi ha raccontato del nuovo Decreto sicurezza. Nel quale si prevedono pesanti sanzioni per le Ong che salvano i rifugiati in mare. Non volevo credere alle mie orecchie. Una cosa indegna. Incompatibile con una società civile. Criminalizzare uno dei valori fondamentali, la solidarietà? Arrestare gli "angeli"? Non esiste. Qui c’è gente che dopo aver dovuto abbandonare la propria casa, il proprio Paese – e non importa per quale motivo lo faccia: cercare la felicità è un sacrosanto diritto, lo sappiamo bene noi americani e voi europei che in passato abbiamo vissuto questa situazione – ha subito ogni sorta di orrore. È come se fosse scoppiato un incendio. La gente si butta dal quinto piano, non ha scelta. E per fortuna a terra trova gli "angeli": vigili del fuoco, guardia costiera, volontari delle Ong. Ma poi si sente dire: bravo, ce l’hai fatta. Ora ti rispediamo all’inferno. Perché la Libia è l’inferno. Ho ascoltato i racconti di queste persone. Ci sono cose che non si possono inventare. Occhi che non si possono dimenticare. Quindi, ho immediatamente chiamato i responsabili di Open Arms, associazione che ammiro e da tempo finanzio, e ho detto loro che volevo salire a bordo.

È stato facile salire a bordo?
Non tanto. Abbiamo avuto difficoltà a trovare una barca che ci portasse sotto bordo, al largo. Ci eravamo messi d’accordo con un pescatore, ma ci ha richiamato dopo poche ore dicendo che non se la sentiva, aveva paura, era terrorizzato dalle conseguenze. C’è un brutto clima di intimidazione, di paura. Siete cambiati, voi italiani. Avete perso il sorriso, la gioia di vivere, vi siete incattiviti anche voi...

Anche noi?
Sì, perché l’incattivimento è un fenomeno globale. Il mondo è guidato da piccoli e grandi Trump, che con la loro ignoranza, le loro bugie, le loro promesse e le loro minacce stanno manipolando la verità.

Nel frattempo, avanza il secolo cinese...
Bisogna aver paura della Cina, del loro sistema. Quello che fanno in Tibet, nello Xinjiang e più in generale, ovunque, perseguitando e imprigionando chiunque esprima dissenso, è pazzesco. Non possiamo permetterlo. Sono anche molto preoccupato per Hong Kong, seguo la situazione grazie ad alcuni amici che sono lì, temo il peggio. Anche perché oggi non c’è nessuno che possa opporsi a Pechino.

Dalla generazione dei "sit-in" e "be-in" siamo passati a quella dei "sit-out" e "stay-out". Molta gente oggi non vuole coinvolgersi. Ha paura, è preoccupata, pensa a se stessa. Qualcuno dice che il liberalismo è fallito, che sia ormai obsoleto. Lo ha detto Putin di recente...
La democrazia funziona solo se c’è partecipazione, continua, consapevole e diffusa. In America avevamo un buon sistema, con una serie di meccanismi costituzionali, di pesi e contrappesi, che sinora avevano funzionato. Pensavamo di essere al sicuro da ogni rischio dittatoriale. Ma non basta più.

Lei sulla Cina va sempre giù duro. È vero che dopo la sua dichiarazione di guerra durante la cerimonia degli Oscar del 1993 non lavora più alle grandi produzioni di Hollywood?
In parte sì. Ma non è un problema, mi creda. Hollywood da tempo produce film che non mi interessano, è un disinteresse reciproco, diciamo così. Certo i produttori cinesi hanno messo il veto sul mio nome, ma grazie al cielo ho altre offerte e altri interessi.

Ma lei crede davvero che basti essere un po’ più buoni, per salvare il nostro mondo? Che oltre ad aprire le braccia, dovremmo aprire i confini?
Il primo confine che dobbiamo spalancare e dal quale dobbiamo uscire è quello del nostro cuore e della nostra mente. Dobbiamo aprirci agli altri, alla sofferenza altrui. Il resto viene da sé. Dobbiamo essere più seri, più riflessivi, studiare di più. È un percorso, un cammino di conoscenza e tolleranza che abbiamo interrotto e che dobbiamo riprendere. Ed è un messaggio comune a tutte le religioni. Io sono buddhista, ma non mi risulta che Gesù abbia mai detto qualcosa come: «Amate il vostro prossimo, tranne gli... africani».

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