giovedì 23 maggio 2024
A poche ore dall'interrogatorio di Toti, imprenditori e mondo del lavoro vivono nell'incubo dell'immobilismo: i miliardi del Pnrr potrebbero prendere strade diverse. «La città deve andare avanti»
Una veduta del porto di Genova

Una veduta del porto di Genova - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Oggi, a quindici giorni dall’arresto con l’accusa di aver ricevuto “mazzette” in cambio di favori, primo interrogatorio di Giovanni Toti davanti ai pm della procura di Genova, Luca Monteverde e Federico Manotti che indagano sulla vicenda. Il faccia a faccia era previsto per la prossima settimana ma è stato anticipato, segno che l’inchiesta potrebbe essere a una svolta. Tra gli aspetti che gli inquirenti vogliono chiarire, per poter provare l’ipotesi di corruzione, c’è anche una sospetta operazione bancaria con la quale 55 mila euro sarebbero transitati dal conto del Comitato elettorale del governatore della Liguria, presso Intesa San Paolo, a quello suo personale, in una filiale Carige.


«Non siamo una città di camerieri». In quasi mezzo secolo, la profezia di Cerofolini, il sindaco degli anni Ottanta, si è sbriciolata come una farinata che non hai fatto ben riposare. Genova non è diventata la nuova Disneyland, come sognava qualcuno, ma l’industria pesante è morta lo stesso e l’anima operaia della Superba ha dovuto inchinarsi al turismo e ai commerci. Il cuore economico della città torna ad essere il porto.

Gli anni Novanta, con le Colombiadi e la Capitale della Cultura, hanno chiuso un ciclo per aprirne un altro, fatto di crociere e congressi, di tecnologie, servizi e logistica. La chiave che apre tutte queste porte è il Pnrr, con quei suoi miliardi che potrebbero prendere altre strade, se l’inchiesta che ha portato all’arresto del governatore Toti dovesse deflagrare. È ciò che i genovesi temono. A partire dal loro sindaco-manager, Marco Bucci. Ruvido ma bravo, ha ricostruito il ponte Morandi in tempi record. Il modello Genova è lui: palanche ed efficienza, per realizzare opere che renderanno la città più bella e produttiva. Alcuni cantieri sono già aperti, altri sulla carta; altri ancora nelle carte della procura. Il più importante, per ora sullo sfondo dell’inchiesta, è la nuova diga foranea. Eppoi waterfront, tunnel sotto il porto, scolmatore e rigassificatore, Gronda e Terzo valico… Un “sistema” che diverrà un volano solo a condizione che non si metta in mora il modello Genova, il regime di deroghe e semplificazioni che permettono di strattonare la burocrazia e farla lavorare. Sbreghi che ai magistrati piacciono poco, se non pochissimo: infatti, la Superba teme che il modello venga smodellato e che a Genova tolgano l’acqua. Anche se Toti controlla, come commissario, solo due delle opere più importanti e gli altri arrestati non hanno responsabilità dirette nei progetti finanziati dal Pnrr, qualcuno potrebbe pensare che quei soldi non possano più esser investiti all’ombra della Lanterna. È il motivo per cui Bucci a poche ore dagli arresti se ne è uscito così: «C’è una città da portare avanti e quasi 8 miliardi da investire». Che è poi la tesi degli ambienti genovesi che contano. Dagli armatori ai sindacati, dalla politica alla Chiesa…

I cappellani del lavoro, figli del cardinale Siri e della vecchia città operaia, hanno appena pubblicato questa nota sul Cittadino, il settimanale della diocesi: «È diffuso il timore che grandi infrastrutture, attese da troppi anni, possano subire ritardi con evidente danno per il lavoro. Specialmente per quanto riguarda il porto, cuore dell’economia cittadina, temiamo che la sua credibilità abbia subito un notevole danno da riparare prontamente, con massimo e condiviso impegno da parte di tutti». Il pensiero corre ai lavoratori, ma anche ai magistrati, cui si chiede «chiarezza, tempi ragionevoli, individuazione delle responsabilità». E soprattutto di «proseguire sulle strada dei progetti realizzabili». L’appello è autorevole - da queste parti, le messe dei preti operai di Sampierdarena valevano un pontificale – anche se non sottovaluta il degrado morale ipotizzato dagli inquirenti. Di questa storia di tangenti e amorazzi stupisce il basso profilo. Come se si fosse deindustrializzata anche la corruzione. L’allarme sociale, peraltro, non è scattato per gli episodi contestati o l’entità del “bottino”, ma per i ruoli dei personaggi coinvolti, tutti di primo piano nel mondo amministrativo e in quello delle imprese. Fino a lambire il sancta sanctorum dei lavori pubblici e dello shipment.
Andrea Mignone, che ha insegnato Scienza politica proprio all’Università di Genova, ricorda che «l’Italia è fuori tempo massimo nel dotarsi di una efficace regolamentazione dell’attività di lobbying». Se poi si arrivasse a vietare le porte girevoli, come chiede lo studioso, cioè a impedire agli ex politici «qualsiasi attività di rappresentanza e di lobbismo per un certo numero di anni», andrebbe ridisegnata la geografia del potere ligure.

In questo gioco da alta società, il modello Genova è la chiave. Dopo il crollo del ponte Morandi, in un mese e mezzo il governo approvò un decreto che dava soldi e regole speciali per la ricostruzione. Bucci fu nominato commissario, ma nessuno si immaginava che sarebbe stato così rapido e – abbattimento e costruzione in due anni - trasformasse la sfida pubblica in un modello “privatistico”, fatto di autorizzazioni ridotte, tempi degli appalti abbreviati e deroghe alle norme. Secondo Gian Enzo Duci, «Bucci ha fatto lavorare in parallelo delle amministrazioni pubbliche che lavoravano in modo sequenziale; l’uovo di Colombo, ma bisogna essere un bravo manager per riuscirci». Duci la sa lunga su Genova e lo shipping, che insegna all’Università cittadina. Già presidente di Federagenti, consigliere d’amministrazione di numerose società e reggente di Banca d’Italia, lo preoccupa il fumo mediatico. «Siamo scossi - ci racconta -, ma il porto, che è stato il cuore delle attività di Signorini e Spinelli, oggi agli arresti, funziona regolarmente perché nessuno degli amministratori è indagato per attività che possano bloccarlo». Anche lui è convinto che certe opere siano “irrinunciabili”, magari rivedendo alcuni progetti. A partire dalla diga foranea (1,3 miliardi al consorzio Webuild), di cui i giudici amministrativi hanno contestato l’appalto. «Siamo una città stretta tra mare e monti, con una sopraelevata che sorvola il centro e una tangenziale (la famigerata “gronda”) di cui si parla da trent’anni. Abbiamo un rapporto difficile con lo spazio e avere una nuova diga che consenta alle grandi navi di entrare in porto, evitando incidenti come quello della Torre piloti del 2013, è di vitale importanza» spiega. La nuova opera porterà il mercato potenziale del porto da 4 a 10 milioni di container (oggi ne movimenta meno di 3 milioni) e sosterrà un business che va oltre l’Appennino e le Alpi, grazie al completamento del terzo valico ferroviario che abbatterà i tempi di viaggio tra Genova e Milano, avvicinando i mercati della Svizzera e della Baviera. Ancora Duci: «Genova serve prevalentemente la pianura padana ma soprattutto è lo sbocco al mare di Milano, come Le Havre per Parigi. Non si diventa una grande capitale europea senza un porto». Messaggio per palazzo Marino.

Se la partita è così importante, nei bar del Porto Antico ci si domanda come mai tutto possa finire per una vacanza incautamente offerta a un manager pubblico e il rinnovo di una concessione trentennale. Duci sorride: «Con la fine delle partecipazioni statali e il prezzo pagato da gruppi come Ilva, Italimpianti o Ansaldo, questa terra ha perso quasi trecentomila abitanti, ma non altrettanta ricchezza. E’ normale che la selezione della classe dirigente ne risenta … Sul rinnovo delle concessioni, se lo Stato cede una banchina a un investitore che la attrezza con gru che hanno una vita media di almeno trent’anni, la concessione non può avere una durata inferiore; capire se una concessione sia corretta è un tema economico e non penale». Aldo Spinelli – arrestato con l’accusa di aver pagato tangenti, ancorché con finanziamenti legalmente dichiarati, per ottenere un rinnovo – è l’ultimo terminalista locale. Oggi le banchine sono controllate da player del calibro di Psa, Msc, Maersk e Cosco o Hapag Lloyd. Con società che sono emanazioni di Stati e seguono logiche geopolitiche, gli appalti devono aderire scrupolosamente al piano d’impresa, se non si vuole avere la banchina vuota. Esattamente com’è capitato alla grande fabbrica.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI