lunedì 20 settembre 2010
«Alessandro in Afghanistan voleva che gli ordigni non spegnessero più i sogni dei bambini, che le donne non fossero più sfigurate e lapidate, che gli uomini non fossero più legati su pali in attesa della morte, dinanzi agli occhi dei figli». Con queste parole l'arcivescovo ordinario per l’Italia, ha ricordato la figura del capitano ucciso il 17 settembre in uno scontro a fuoco con i talebani. Al termine della cerimonia funebre, la salma è stata salutata dalle autorità e dalla folla.
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Il feretro del capitano Romani (è stato promosso al grado superiore dopo la sua scomparsa in azione, ndr) è stato salutato da un lungo applauso all'uscita dalla basilica. Ad attenderlo sul piazzale antistante, in piazza della Repubblica, un picchetto d'onore interforze e la banda dell'Esercito che intonava la marcia funebre. Pochi istanti prima, all'apparire della bara, i commilitoni del capitano Romani avevano urlato "Folgore!", in onore dell'ufficiale caduto. Dietro il feretro la corona di fiori del presidente della Repubblica portata da due finanzieri. Poi il mesto corteo con in testa i genitori e i famigliari del caduto, a seguire le autorità a cominciare dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano accompagnato dai presidente dei due rami del Parlamento, Renato Schifani, da una folta delegazione ministeriale, dai massimi vertici delle forze di polizia e delle forze armate, dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, dalpresidente della Regione Lazio, Renata Polverini, e da quello della provincia Nicola Zingaretti.La salma del capitano Romani verrà condotta al cimitero monumentale del Verano dove l'incursore della Folgore verrà seppellito accanto alla nonna, così come hanno richiesto i famigliari.«Alessandro in Afghanistan voleva che gli ordigni non spegnessero più i sogni dei bambini, che le donne non fossero più sfigurate e lapidate, che gli uomini non fossero più legati su pali in attesa della morte, dinanzi agli occhi dei figli». Con queste parole mons. Vincenzo Pelvi, arcivescovo ordinario per l’Italia, ha ricordato la figura del tenente Alessandro Romani, incursore del reggimento Col Moschin, ucciso il 17 settembre in uno scontro a fuoco con i talebani e del quale oggi, a Roma, si sono celebrati i funerali. «In questa basilica, diventiamo alunni dinanzi alla sua bara, cattedra non sempre condivisa e riconosciuta. Eppure è una cattedra da cui viene trasmesso un insegnamento che debella l’egoismo e fa trionfare la solidarietà. Una cattedra che non respinge i poveri e gli emarginati ma insegna ad accogliere i più deboli e li mette in cattedra». «Caro Alessandro, - ha detto monsignor Pelvi rivolgendosi direttamente al militare caduto - con la partecipazione alle missioni internazionali di sicurezza e di sviluppo, sei diventato, senza cercarlo, fiaccola per la nostra Patria e l’intera umanità. Non ti sei preoccupato delle tue paure o delle tue ferite perché avevi a cuore di restituire dignità umana a ogni persona. Prima per il popolo iracheno e poi per quello afgano, sei stato luce di speranza, convinto che la vita di ogni uomo è un valore non negoziabile». Per monsignor Pelvi il sacrificio di Romani «è un ammonimento circa la necessità di abbandonare la mentalità che considera i poveri - persone e popoli - come fardello e come fastidiosi importuni. Eppure solo assieme a loro possiamo creare un mondo più giusto e per tutti più prospero. Se vogliamo la pace, la costruiremo assicurando a tutti la possibilità di una crescita ragionevole: le ingiustizie, prima o poi, presentano il conto a tutti. Il servizio dei nostri militari rivela un obiettivo di profonda solidarietà: mirare al bene di ognuno e di tutti». Da qui l’impegno a «non distogliere mai l’attenzione ai progetti di sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più bisognosi di aiuto, promuovendo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale anche col minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti. Lo sviluppo è dato dall’incremento di scelte buone che sono possibili quando esiste la nozione di un bene umano integrale”. Il vescovo castrense ha concluso l’omelia ringraziando a nome dell’Italia “i nostri militari, che, liberi dal proprio io, si espongono come lampada per i popoli martoriati dalla tirannia e dalla violenza con l’intento di rendere ospitale la casa dell’umanità. La guerra non è mai inevitabile e la pace è sempre possibile. Anzi doverosa».
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