martedì 30 dicembre 2008
Il professor Gigli: i tre cardini della decisione dei giudici – autodeterminazione della giovane, volontà di interrompere il trattamento e irreversibilità – si basano su interpretazioni confutabili della realtà e non tengono conto dei progressi della medicina.
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Tra pochi giorni saranno passati sei mesi dal decreto della Corte d’Appello di Mi­lano che autorizzava la morte per fame e per sete di Eluana. Sei mesi guadagnati alla vi­ta, ma anche sei mesi che hanno mostrato tut­ti i limiti dell’applicabilità di un dispositivo giu­diziario e le contraddizioni della sentenza del­la Cassazione del novembre 2007 che lo aveva reso possibile. Cominciamo da quest’ultima. Essa si fonda su tre cardini. Primo, il principio di autodetermi­nazione esclude che una persona possa essere sottoposta a trattamenti sanitari contro la sua volontà, anche quando (come nel caso di Elua­na) essi sono proporzionati e non costituisco­no accanimento terapeutico. Secondo, la vo­lontà del paziente di interrompere il trattamento deve essere documentata. Terzo, la condizione clinica di stato vegetativo deve essere irreversi­bile. All’irreversibilità dello stato vegetativo (in ter­mini assoluti e non solo probabilistici) il mon­do scientifico e la medicina non credono per nulla e nessuno si azzarda più a riproporla co­me argomento del dibattito. La documentazione della volontà della pazien­te di rifiutare le cure è stata quanto meno ap­prossimativa e si fonda solo sulla ricostruzione induttiva della sua personalità, basata su una dichiarazione emotiva di fronte a un evento drammatico, riportata da terzi, senza essere pas­sata attraverso la maturazione di quella piena consapevolezza che necessaria a esprimere il consenso davvero informato che si richiede in medicina. Chi scrive inoltre è consapevole del fatto che esistono altre testimonianze, contrad­dittore con la ricostruzione di personalità pro­posta dal padre e da alcune amiche, di cui il ma­gistrato non ha tenuto alcun conto. Infine, la sentenza della Cassazione parla solo di alimentazione artificiale, visto che sarebbe difficile spacciare per trattamento medico la nu­trizione con il cucchiaio anche a quanti hanno ideologicamente trasformato in artificiale l’ ali­mentazione assistita (giudicata, ancora nel 1973, una forma di assistenza di base dal laico Briti­sh Medical Research Council). La rivelazione dei giorni scorsi, secondo cui E­luana deglutisce, mina alla base la sentenza del­la Cassazione. La notizia, minimizzata da chi ri­tiene che Eluana debba comunque essere la­sciata morire di fame e di sete, era stata para­dossalmente ignorata nel verboso decreto del giudice La Manna, benché esso si fosse preoc­cupato per 62 pagine di analizzare anche i mi­nimi dettagli e i risvolti più macabri. Invece, la presenza del riflesso della deglutizio­ne, sia pur mantenuto parzialmente, impor­rebbe, con le dovute cautele per evitare polmo­niti da ingestione, di 'perdere' tutto il tempo necessario per nutrire la paziente per bocca. Im­porrebbe cioè di fare con il cucchiaio, quello che oggi, solo per ragioni di economia e di sicurez­za, viene demandato al sondino. Il non farlo e­quivarrebbe ad ammettere che la decisione non si fonda sul rifiuto di trattamenti 'artificiali', ma su una precostituita volontà di lasciar morire u­na disabile grave (che non si decide a farlo da sola), poiché la sua vita non è ritenta di qualità sufficiente per farla continuare. Fin qui per i limiti della sentenza di Cassazione. Per quanto riguarda invece il decreto della Cor­te d’Appello di Milano, occorre almeno rilevar­ne la pochezza dell’orizzonte culturale, che tra­scura tutte le acquisizioni scientifiche degli ul­timi dieci anni, e la debolezza della valutazione clinica che non risulta essersi avvalsa delle in- dagini più innovative per verificare nella pa­ziente la mancanza di ogni consapevolezza di sé e dell’ambiente. Pur in presenza di tali limi­ti, il giudice La Manna conclude, sbrigativa­mente, per la avvenuta verifica della condizio­ne di irreversibilità prevista dalla Cassazione. Infine, le macabre disposizioni del decreto im­pongono che, mentre si sospendono l’idrata­zione e la nutrizione, venga evitata la sofferen­za con «somministrazione di sostanze idonee ad eliminare l’eventuale disagio da carenza di li­quidi ». Come rilevato nell’appello dei medicipereleu­na@ gmail.com «in medicina è regola assoluta che la presenza di qualunque 'disagio' e soffe­renza venga corretta anzitutto rimuovendo le cause che la determinano e non nascondendo­ne artificialmente le conseguenze, mentre si la­sciano perdurare gli effetti dannosi della causa non rimossa». Per non contravvenire alle regole di Buona Pra­tica Clinica, sancite dalla dichiarazione di Hel­sinki, il medico dovrebbe intervenire sommini­strando liquidi ed elementi nutritivi e non na­scondendo la sofferenza stessa con sedativi e antidolorifici. È evidente che in tal modo il de­creto non potrebbe essere applicato, ma è al­trettanto evidente che se ci si ostinasse a farlo applicare, il giudice si assumerebbe la respon­sabilità di indurre i medici a comportamenti deontologicamente scorretti. In questa vicenda di morte, la Magistratura ha alimentato il sospetto di essersi sostituita all’a­zione del legislatore per una presunzione ideo­logica. Per evitare di lasciare ombre sulla cer­tezza del Diritto è necessario talvolta il coraggio di rivedere anche le sentenze. Si tratta di am­mettere che l’irreversibilità dello stato vegetati­vo non può essere dimostrata e che la paziente deve essere sottoposta a nuovi esami clinici, fon­dati sulle più recenti acquisizioni scientifiche. I­noltre, le sue manifestazioni di volontà devono essere appurate con una ricerca più accurata. Occorre anche ammettere che, staccato il son­dino, Eluana dovrebbe essere alimentata per bocca e superare le contraddizioni tra le maca­bre disposizioni del decreto applicativo e la deontologia medica. Non sarebbe male, infine, che il curatore speciale fosse realmente indi­pendente dalle scelte del tutore e non fosse in­vece un avvocato di sua fiducia. Garanzia ancor maggiore si avrebbe, poi, se le sue scelte fosse­ro alternative a quelle del tutore. In un Paese civile, nessuno può essere lasciato morire di fame e di sete. Nel Paese di 'Nessuno tocchi Caino', dove giustamente molti lottano per le garanzie di assassini e stupratori, è ur­gente una posizione di garanzia anche per un innocente agnello sacrificale che si vorrebbe im­molare sull’altare dell’ideologia. L’Italia non ha bisogno di una nuova Porta Pia sulla pelle di E­luana, come auspicato da Maurizio Mori nel suo libro. A nome dei medicipereluana@gmail.com invo­co: 'Nessuno tocchi Abele'.
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