sabato 28 agosto 2021
Il dispositivo del governo prevede 400 euro al mese per un anno: già stanziati 3 milioni di euro. Mancano, però, i decreti attuativi e i fondi restano al palo. I centri: «Così non possiamo aiutarle»
Un reddito di libertà per le vittime di violenza. Che nessuno può (ancora) usare
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Si chiama “reddito di libertà” e in giorni di nuovi, efferati femminicidi, sembra quasi fuori luogo parlarne. Che c’entrano i soldi, con la violenza di un uomo? «Servono misure restrittive ancora più stringenti, serve applicarle con immediatezza e competenza» ripetono i politici e le associazioni dopo i fatti di Catania, con Vanessa presa per i capelli e ammazzata a colpi di pistola dal suo ex. E invece anche i soldi servono, perché tantissime donne dai propri mariti, compagni, o ex non riescono a liberarsi perché non possono farlo. Non hanno le disponibilità per comprare una casa dove andare a vivere senza di loro, non hanno i risparmi che consentano loro di staccarsi dal lavoro per un certo periodo e intraprendere un percorso in un centro antiviolenza, più spesso non sanno come mantenersi assieme ai figli, specie se piccoli. Si resta schiave, allora. E si finisce per morirne.

Il governo, sensibilizzato da chi con le vittime lavora ogni giorno, negli ultimi anni ha fatto passi da gigante nel riconoscere anche il peso della violenza economica e il risultato, lo scorso dicembre, è stato lo stanziamento di fondi nella legge di Bilancio destinati proprio all’erogazione di un reddito di libertà: 3 milioni di euro, da dividere in tranche da 400 euro mensili, erogabili (fino al massimo di un anno) alle donne maltrattate che si siano rivolte a un centro specializzato. Non molti, a dire il vero: fatti due conti, basteranno per il sostegno di 625 progetti, contro le oltre 20mila richieste d’aiuto di cui per esempio solo la rete Dire dei centri antiviolenza si fa carico ogni anno. «Ma il segnale è davvero positivo – spiega Cristina Carelli, che di Dire è consigliera nazionale per la regione Lombardia, oltre che coordinatrice generale della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano (Cadmi) – e noi vogliamo guardare a questo. Le istituzioni hanno finalmente capito che la violenza agisce su più piani: quello psicologico, quello sociale e quello economico appunto. E che le intenzioni, da sole, non bastano. Spesso le donne non possono materialmente allontanarsi dalla violenza: le case rifugio, che pure noi mettiamo a disposizione, sono una soluzione drastica che in molti casi potrebbe essere evitata, se solo ci fosse la possibilità di affittare una stanza o una casa in cui vivere al sicuro».

Vanessa Zappalà è l'ultima, giovane vittima di un efferato femminicidio: il suo ex (che lei aveva denunciato e fatto anche arrestare) l'ha uccisa a colpi di pistola sul lungomare di Aci Trezza davanti agli amici

Vanessa Zappalà è l'ultima, giovane vittima di un efferato femminicidio: il suo ex (che lei aveva denunciato e fatto anche arrestare) l'ha uccisa a colpi di pistola sul lungomare di Aci Trezza davanti agli amici - Ansa

Sul dispositivo, che è entrato in Gazzetta ufficiale a fine luglio, le aspettative sono dunque alte: «Anche il nome che gli è stato dato, “reddito di libertà”, incarna perfettamente l’obiettivo dei percorsi che mettiamo in campo – continua Carelli –: quello di liberare le donne, restituendo loro l’autonomia e la dignità di persone che la violenza ha tolto e che toglie sempre». Peccato che manchino ancora i decreti attuativi per poterne fare richiesta: tutte le indicazioni, cioè, che concretamente permettano ai centri di aprire le pratiche, mettendosi in dialogo con l’Inps (l’ente erogante) e coi servizi sociali (il terzo soggetto che deve entrare in campo per certificare il reale stato di fragilità della donna): «Il dispositivo c’è – spiega insomma Carelli –, ma non sappiamo ancora come attivarlo. Senza contare la criticità legata proprio al ruolo dei servizi sociali: noi operatrici siamo ovviamente disponibili a tutte le interlocuzioni necessarie con questi ultimi, ma il rischio è che i tempi si allunghino in maniera insostenibile (sappiamo benissimo che difficoltà scontino i servizi in termini di risorse e personale) e che non ci sia la formazione adeguata a comprendere la reale vulnerabilità delle donne con cui lavoriamo». Per intendersi, ed è il caso più frequente: le donne che hanno una casa in comproprietà col maltrattante nella maggior parte dei casi non hanno la possibilità economica di affittare o di acquistare un’altra casa dove andare a vivere per sfuggire alle violenze «ma se si guardasse solo all’Isee, in questo caso non verrebbe affatto certificata la realtà della loro situazione». Così, delle 500 donne mediamente seguite al Cadmi di Milano «almeno 200 avrebbero tutti i requisiti per ricevere il reddito di libertà. La nostra speranza, ovviamente, è che abbiano la possibilità concreta di riceverlo». Che per ora, tuttavia, non c’è.

Al di là dei pasticci burocratici (l’Inps proprio in queste ore si sta confrontando con la rete dei centri antiviolenza per mettere a punto i decreti attuativi vacanti, che si spera vengano emanati al più presto), il tema della formazione di chi è chiamato a “certificare” la violenza subita resta cruciale «e purtroppo irrisolto. Lo abbiamo visto anche nel caso della giovane di Catania, lo vediamo ripetersi come un triste copione in tutti i femminicidi a cui assitiamo – conclude Carelli –. Troppi dei soggetti istituzionali coinvolti non sono ancora in grado di riconoscere i segnali della violenza: medici, poliziotti, giudici. Possono esserci le migliori leggi del mondo, ma il sistema va messo ancora a punto. E può esserci anche la denuncia, ma la denuncia da sola non basta se la donna viene lasciata sola, se la denuncia cioè non entra in una rete strutturata di aiuto che mette insieme tutte le azioni e le valutazioni volte a valutare i rischi». Dalla violenza si esce – «e si esce per davvero, è altissima la percentuale di riuscita dei percorsi nei nostri centri» – solo insieme.

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