Don Abbondio e l’epidemia di paura. L’antidoto della fiducia
mercoledì 6 dicembre 2023

Erano due secoli o giù di lì che si aspettava qualcuno che gli desse torto, ma finora Don Abbondio se l’era cavata abbastanza bene. Anzi, talmente bene che si è potuto parlare di un “sistema di Don Abbondio”, ben consolidato e addirittura imperante nella società italiana. Consiste nello schivare le responsabilità anziché assumersele, nel conservarsi cauti fino alla pavidità, nel trincerarsi dietro l’apparente buonsenso di quella frase passata in proverbio: «Il coraggio, uno non se lo può dare». Nei Promessi Sposi, com’è noto, il prudentissimo curato si serve di questa espressione per replicare – con il dovuto rispetto e con somma circospezione, si capisce – al cardinale Federigo Borromeo, che vorrebbe invece sacerdoti audaci, liberi nel giudizio, pronti al sacrificio. Don Abbondio annuisce, ma poi il coraggio non ce l’ha, con quel che segue.

Sono passati due secoli o giù di lì, dicevamo, ed ecco che l’ingannevole massima di Don Abbondio viene contraddetta da un altro arcivescovo della Diocesi di Milano, monsignor Mario Delpini. Il suo “Discorso alla città” (pronunciato come da tradizione ieri sera, alla vigilia della festa di sant’Ambrogio e di cui diamo conto nelle pagine di Catholica e della Cronaca di Milano) capovolge l’assunto del parroco tremebondo. Il coraggio, uno se lo può dare, avverte programmaticamente Delpini, e subito spiega come questo sia possibile. Non è un’impresa alla barone di Münchhausen, l’avventuroso fanfarone che pretendeva di essersi salvato dal precipitare nel vuoto agguantando il codino delle propria parrucca.

Il coraggio, insomma, uno non se lo può dare da solo, illudendosi di rimanere nella trincea dell’immunità, che nel ragionamento dell’arcivescovo è la volontà di «difendersi dall’altro». Il coraggio viene semmai dalla comunità, la «difesa dell’altro» alla cui origine sta la «pratica della fiducia», che del discorso alla città è il vero fondamento. Avere fiducia (e, si potrebbe aggiungere, dimostrare di essere degni di fiducia) è per Delpini «il rimedio all’epidemia della paura», una paura che è alimentata dai media non meno che dal famigerato senso comune del quale si avvantaggiano i sistemi impiantati dai tanti Don Abbondio in circolazione. L’invito a essere «seminatori di fiducia» e non di paura è il nucleo rivoluzionario di un intervento che, pur rivolgendosi direttamente a Milano e ai suoi amministratori, guarda a un orizzonte più ampio.

Da un lato c’è la consapevolezza che la fiducia, per essere autentica, ha bisogno di un fondamento trascendente, dall’altro ci sono le sfide che la «vecchia, saggia, ricca, sterile Europa» è chiamata a fronteggiare: la crisi demografica, le fragilità del patto educativo e generazionale, le migrazioni che per Delpini sono un «fattore» da valorizzare e non un’invasione da respingere.

Poco più di ventiquattr’ore prima che l’arcivescovo intervenisse nella basilica di Sant’Ambrogio, in un’altra basilica, quella di Santa Giustina a Padova, sono risuonate le parole con cui Gino Cecchettin ha preso congedo dalla figlia Giulia: «Io non so pregare, ma so sperare», ha detto, dando voce alla fiducia nella sua forma estrema, che è appunto la speranza. Non si pratica la fiducia per una convenienza immediata, non si spera per il proprio tornaconto. Avere fiducia, ha ricordato Delpini, significa «esprimere gratitudine, credere alla promessa che l’altro è per te».

A qualcuno sembrerà ancora una mossa avventata, un rischio che non vale la pena di correre. Anche le nostre città, e non soltanto Milano, sono esposte alla tentazione di assestarsi sulla difensiva, accaparrando risorse dove si può e finché si può. È una scelta pericolosa, perché comporta la rinuncia alla progettualità ideale e condanna a barcamenarsi nella mediocrità.

Lo confessa il coro delle donne di Canterbury in Assassinio nella cattedrale, il dramma che il premio Nobel T.S. Eliot dedicò al martirio del santo vescovo Thomas Becket: ci sono momenti in cui si preferisce andare avanti così, «vivendo e quasi vivendo». In questo, ammettiamolo, nessuno riesce a eguagliare Don Abbondio, che della sfiducia verso l’altro (e quindi verso il mondo, e in definitiva verso Dio stesso) ha fatto la sua regola. Per un paio di secoli è andata in questo modo. Adesso, finalmente, è arrivato il momento di prendere coraggio. Con fiducia, con tutta la speranza che riusciamo a donarci.




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