C'è il rischio che possa fuggire e che possa commettere ancora il reato. Per questo il gip di Milano Vincenzo Tutinelli ha convalidato la richiesta di fermo e disposto il carcere per Piero Daccò, il consulente in affari col San Raffaele fermato martedì scorso per concorso in bancarotta nell'ambito dell'inchiesta della Procura di Milano sul dissesto del gruppo ospedaliero e nella quale tra gli indagati figura anche don Verzè.
"CREAVO I FONDI NERI PER IL SAN RAFFAELE" di Luigi Gambacorta"Oo sono un faccendiere, è questo il mio mestiere». È cominciata così la confessione fiume di Pierangelo Daccò, detto Piero. Ed è andata avanti per sette ore col gip Vincenzo Tutinelli che ne doveva convalidare il fermo. Più dei due giorni di carcere ad Opera può averlo ammorbidito il difensore Giampiero Biancolella, dopo la lettura delle carte.Faccendiere, in questo caso significa che Daccò ha cominciato col mettere al sicuro fondi neri, in Svizzera soprattutto, gonfiati da imprese e fornitori del San Raffaele. Ma che ne ha anche creati tanti con «causali di comodo» intestate a società estere ma di «impronta familiare». Sempre lui si incaricava dell’ulteriore redistribuzione dei «profitti» a personaggi politici che gli omissis non consentono di identificare.Tutto si consumava in un rapporto diretto con Mario Cal, suicidatosi il 18 luglio, il braccio destro di Don Verzè, che rimane come un’ombra insieme lontana ed incombente. Tutto si svolgeva con un meccanismo oleato, ha raccontato, «con senso di fastidio», Stefania Galli, segretaria di Cal: «Daccò veniva con cadenza settimanale, senza accordarsi su giorni e orari». Ritirava «buste dell’altezza di 3-4 centimetri e contenenti banconote da 500 euro». Cal, «mi ha chiesto, non più di una decina di volte, di prelevare importi nell’ordine di circa 5000». Le buste le riempiva Pierino Zammarchi, «che applicava un prezzo quattro volte superiore a quello di mercato per costruzione di immobili per conto del San Raffaele». Cal «apriva e controllava che ci fosse il danaro». Poi «me lo consegnava perché le riponessi nella cassaforte posta dietro una falsa colonna nel corridoio che collegava gli uffici all’atrio esterno. Tutti sapevano dove stavano le chiavi, ma nessuno vi accedeva».Il sistema cambiò una prima volta «dopo una perquisizione disposta dalla Procura per un’inchiesta legata al Centro del Sonno». Allora «fu contattato il nipote di Cal, Mauro Vardenega, che custodiva le buste nella cassaforte del Raphal, l’albergo del quale era direttore». Il secondo cambiamento ci fu quando «Pierino Zammarchi venne indagato (e poi assolto, ndr) per associazione di stampo mafioso». A sostituirlo fu il figlio Giammarco, che provvedeva a bonifici diretti con Daccò. Ed è stato proprio il "ragazzo", in una telefonata al padre, a dire: «Vado in procura e gli racconto tutto, che però Mario (Cal, ndr) diceva che dava dei soldi ai politici». Sempre Cal liquidò a Daccò improbabili consulenze. E per la sua Hermann, «settore mediatico e farmaceutico», 704 fatture emesse tutte nel primo mese di attività della società. Pagò anche la mediazione per l’acquisto di un aereo privato, un vecchio 604, costato 20 milioni di euro, prezzo «pressoché doppio del valore di mercato» . Un aereo «per noi che andiamo in Brasile», diceva Daccò, ma soprattutto a Roma e Olbia. «Una decisione di Don Verzè», ha detto un altro testimone (Alberto Zacchia) per spiegare la " dissipazione". «Nessuno ci ha mai chiesto di calcolare comparativamente la convenienza di voli di linea. Posso dire che Don Verzé, vista l’età, non accetta facilmente dei normali check-in».