domenica 9 giugno 2019
Che risposte avrebbero potuto dare le nostre strutture sanitarie a un caso complesso come quello della ragazza olandese? Tanti i fattori da valutare ma previsioni tutt'altro che confortanti
Per un ricovero in comunità terapeutica in Lombardia, regione d’eccellenza per la neuropsichiatria, si attende da 2 a 6 mesi. Casi in crescita del 45%. Allarmi inascoltati   La presidente Sinpia, Antonella Costantino: a Milano abbiamo un progetto all’avanguardia per la prevenzione dei suicidi giovanili, ma possiamo accogliere appena 30 ragazzi

Per un ricovero in comunità terapeutica in Lombardia, regione d’eccellenza per la neuropsichiatria, si attende da 2 a 6 mesi. Casi in crescita del 45%. Allarmi inascoltati La presidente Sinpia, Antonella Costantino: a Milano abbiamo un progetto all’avanguardia per la prevenzione dei suicidi giovanili, ma possiamo accogliere appena 30 ragazzi

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E se un caso come quello di Noa Pothoven capitasse in Italia?
Che strumenti avremmo per convincere una figlia, una sorella, un’amica a desistere, a non lasciarsi morire di inedia come invece ha scelto di fare la ragazza olandese, distrutta dalla depressione e dall’anoressia dopo gli stupri e le molestie sessuali di cui era rimasta vittima tra gli 11 e i 14 anni e che dai farmaci antidepressivi – secondo quanto si è appreso dalle testimonianze di chi l’ha conosciuta – non sembrava ottenere più alcun beneficio?

La risposta, certo insoddisfacente, può essere una soltanto: dipende. Dalla famiglia, dall’efficienza dei servizi, dalla regione di residenza, dall’esistenza o meno di strutture adeguate, da tanti altri fattori che nessuno può misurare. Dipende. Non è una battuta, è l’atroce constatazione – dati alla mano – della precarietà in cui versa anche da noi la neuropsichiatria infantile.

I disturbi neuropsichiatrici di bambini e adolescenti sono aumentati del 45% negli ultimi cinque anni ma solo un terzo dei ragazzi che in Italia manifesta questo tipo di problemi riesce ad essere curato. Inoltre se si deve inserire un adolescente con 'acuzie psichiatrica' – il termine tecnico per definire i casi più gravi – in una comunità terapeutica, i tempi di attesa vanno da due a sei mesi. Decisamente troppo. In Italia esistono circa 700 comunità terapeutiche attrezzate per questi problemi, ma l’80 per cento è concentrato tra Lombardia e Piemonte. In alcune regioni – Campania, Calabria, Sardegna – non ne esistono proprio.

L’unico progetto specificatamente pensato per prevenire il rischio suicidario degli adolescenti è quella attivo da tre anni all’Unità di neuropsichiatria del Policlinico di Milano. Si chiama 'Progetto Percival' e dispone di tutte le dotazioni e competenze necessarie per prendere in carico le situazioni più gravi, quelle in cui la cosiddetta 'ideazione suicidaria' si è già trasformata in 'pianificazione' e quindi il ragazzo va messo in sicurezza. Qui gli adolescenti vengono seguiti per mesi, anche un anno e oltre se necessario. Ma anche la pur efficientissima neuropsichiatria lombarda ha dei limiti. E pesantissimi. Con il 'Progetto Percival' si riescono a seguire solo 30 casi l’anno. Troppo pochi se si pensa che nel 2016 c’erano a carico della neuropsichiatria della regione 114mila casi, con un incremento del 21% rispetto alla rilevazione di quattro anni prima.

E, in tutta Milano, esiste un solo reparto di neuropsichiatria infantile – all’ospedale San Paolo – che ha disposizione 8 letti. In caso di bisogno si ricorre alla pediatria o alla psichiatria degli adulti. Ma non è la stessa cosa. Ora che è drammaticamente evidente quanto sia grave le carenze delle strutture e profonde le differenze tra Nord e Sud, torna la questione iniziale. Un caso Noa da noi potrebbe capitare? Antonella Costantino, presidente della Sinpia (Società italiana di neuropsichiatria) e responsabile dell’Unità di neuropsichiatria del Policlinico di Milano, parte con una premessa: «Oggi la psichiatria ha tante frecce al suo arco, molte in più rispetto al passato, ma può sempre succedere che le cure non abbiano successo e che, dopo tentativi su tentativi, siamo costretti a rassegnarci».

Può essere capitato così a Noa? Una concentrazione di fattori di rischio come quelli toccati alla ragazzina olandese appare davvero devastante. «Quando si subisce uno stupro in età così giovane è difficile trovare il modo per raccontarlo. Non si comprende, non si dispone delle parole adeguate e – osserva ancora la specialista – si tace anche davanti ai familiari. Del tutto comprensibile quindi il comportamento di Noa che non è riuscita neppure a sporgere denuncia. Di fronte agli estranei quegli episodi proprio non riescono ad uscire». Da qui la depressione, il senso di colpa invincibile, il timore di non farcela che si trasforma in dolore sordo, incomprensibile, annichilente. La malattia mentale diventa una spirale da cui sembra impossibile uscire. E può anche uccidere.

«Oggi possiamo tentare molti interventi psicologici, abbiamo di supporto la farmacologia. Ma le medicine in psichiatria non sono mai risolutive. Non abbiamo l’antibiotico della mente». Quindi non si può escludere che, di fronte a un caso simile a quello di Noa, anche in Italia potremmo essere costretti ad arrenderci? Nei reparti di neuropsichiatria più attrezzati, per prevenire i rischio di suicidio in caso di patologie psichiatriche gravi, si mettono a punto 'piani di crisi', interventi terapeutici ed educativi. Si accompagnano anche i ragazzi con sedute di psicoterapia. Ma, come visto, i reparti nel nostro Paese sono del tutto insufficienti e, soprattutto, sono distribuiti in modo difforme. Inoltre il Servizio sanitario nazionale non copre la psicoterapia degli adolescenti. Quindi in quel 'dipende' dovremmo inserire anche fattori economici. Chi ha possibilità economiche ha qualche speranza in più di guarire.

Ma quante speranze? «Di fronte a casi davvero complessi e già in stato avanzato (come Noa, appunto, ndr) dopo aver tentato tutte le cure possibili, aver bloccato in reparto il ragazzo, averlo alimentato e idratato forzatamente, possiamo solo sperare che quello che definiamo 'aggancio' finisca per funzionare». Anche perché è impensabile tenere in reparto all'infinito un adolescente e anche lasciarlo attaccato al sondino per tempi troppo lunghi. Le è già capitato di dover alzare bandiera bianca? «In tanti anni ho vissuto due casi limite, davvero pesantissimi. Ho temuto di non farcela. Poi alla fine quei ragazzi hanno trovato il modo di reagire».

Ma se non fosse successo? Anche in questa ipotesi la specialista trattiene il giudizio. Non punta il dito contro la legge, contro la società, contro i genitori, contro la cattiva educazione. «Dobbiamo renderci conto che la malattia mentale è una patologia come le altre, può colpire chiunque, ma la stigmatizzazione di cui è ancora circondata può solo peggiorare le cose. Per curare in modo davvero efficace tutti coloro che ne avrebbero bisogno, servono tutte quelle risorse che ancora ci vengono negate». Insomma, senza reparti adeguati, senza specialisti preparati, senza posti letto sufficienti, senza prevenzione – e questa è più o meno la situazione italiana – casi come quello di Noa sono purtroppo possibili. E forse nel silenzio cupo di qualche reparto sono già capitati.

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