
Una manifestante al corteo dell'Anpi di Roma - ipa-agency.net
La Resistenza e l’antifascismo seppero unire all’epoca buona parte dell’Italia, ma 80 anni dopo la rilettura di quei fatti non è univoca e resta un nervo scoperto nella destra storica che oggi governa il Paese. «Siamo allo stesso punto di sempre» osserva lo storico Domenico Guzzo, che insegna Storia contemporanea all’Università di Bologna. «La Resistenza ha avuto un carattere plurale e includeva uno spettro di forze larghissimo, che andava dai monarchici fino ai comunisti, passando per i cattolici. La lotta per la Liberazione e il 25 Aprile restano una di quelle faglie storiche su cui l’Italia continua a navigare, con chiavi di interpretazione diverse a seconda delle appartenenze».
Professor Guzzo, perché su questi temi manca un’identità di vedute?
Perché in una parte dell’opinione pubblica si ingenerò da subito un’idea che ci siamo portati fino a noi. Era quella secondo cui l’obiettivo ultimo del movimento di liberazione consisteva nel fare la rivoluzione. Il 25 Aprile, secondo questa tesi, sarebbe stato solo l’inizio di questo processo. A guidarlo, sarebbe stata la parte politica più organizzata, anche dal punto di vista paramilitare: quella comunista. Il primeggiare di quell’elemento allora era dovuto al fatto che, già prima del 25 Aprile 1945, si guardava agli equilibri che sarebbero sorti con l’avvento della Guerra fredda e con la contrapposizione dei due blocchi di potere.
A quando è giusto far risalire l’avvio della Resistenza? C’è chi sostiene che l’antifascismo fosse presente nel Paese ben prima dell’8 settembre 1943…
È un fatto storico indubitabile che l’armistizio abbia dato il via alla lotta di Liberazione. È vero, prima c’erano state azioni di sabotaggio e scioperi nelle fabbriche, soprattutto da parte delle donne. Ma la Resistenza di massa nacque nel momento in cui si impose una scelta: pensi ai giovanissimi e ai cosiddetti “bandi Graziani”, che prevedevano il reclutamento militare obbligatorio per la Repubblica sociale italiana. Quei ragazzi dovettero scegliere se combattere con i fascisti o salire in montagna con i partigiani. Tenga presente che gran parte della popolazione era stata afascista fino a quel momento, non avendo mostrato né adesione piena né contrasto netto al regime. Quel momento fu un bivio, anche se certamente i sentimenti antifascisti in molte persone esistevano già prima. A quel punto si doveva scegliere: o di qua o di là. Tanti scelsero il Comitato di liberazione nazionale.
Come ha vissuto e come vive storicamente la destra, che fu postfascista, missina, poi si trasformò in An e Fdi, il giorno della Liberazione?
La destra ha sempre vissuto malissimo il 25 Aprile e non l’ha mai riconosciuto come momento fondante della storia della Repubblica. Nel 1959 l’allora sindaco democristiano di Roma, Urbano Cioccetti, che guidava una giunta sostenuta anche dal Msi, decise di non partecipare alle commemorazioni proprio per non inimicarsi Almirante e i suoi, per non parlare delle scorribande di Avanguardia nazionale nel 1960 alla Sapienza di Roma. Ci sarebbero tanti altri esempi. Quel che è certo è che all’inizio ci fu un rifiuto netto della Liberazione e dei suoi valori, proseguito per tutta la stagione della prima Repubblica. Con l’avvento della seconda Repubblica è subentrato il desiderio di uscire dallo stigma del passato, di riaccreditarsi, di depurarsi e di normalizzarsi. Se arriviamo a oggi, non si attacca più il giorno della Liberazione, ma se ne parla il meno possibile. Perché per la destra quella fu la vittoria dei rossi contro i neri, mentre andrebbero apprezzate altre sfumature di quella fase storica.
Quali?
Penso al ruolo che ebbe il mondo cattolico, che pure al suo interno vide convivere anime diverse, dalla gerarchia al laicato, ai movimenti, fino a comprendere tanti politici di ispirazione cristiana. Il mondo cattolico fece un lavoro mirabile, che nel tempo ha portato figure come Giuseppe Dossetti e Aldo Moro a rileggere quel momento come cruciale per la nostra storia e per la scrittura della Costituzione. Penso anche a figure come l’arcivescovo Giacomo Lercaro e il sindaco Giuseppe Dozza a Bologna, dove di fatto si costruì nel dopoguerra un compromesso storico ante litteram. E mi riferisco anche al Vaticano, che ebbe un peso decisivo nel salvare la città di Roma dopo la fuga del re. Più in generale, al di là delle ideologie contrapposte, ci fu uno sforzo corale di umanità dentro un contesto da guerra civile.
Cosa manca adesso per giungere finalmente a una memoria condivisa?
Quello che manca è una storicizzazione di quel 25 Aprile, che consenta anche alla destra di attribuire a quella giornata un valore rifondativo. Si tratta a mio parere di un passaggio storico necessario, che va certo contestualizzato ma da cui è necessario ripartire. Chi parla ancora oggi di Resistenza come di una rivoluzione tradita rivolge un’accusa deformante verso quel periodo, accusa che peraltro arriva solo da una parte dell’opinione pubblica. Con il fascismo non abbiamo ancora fatto completamente i conti, visto che in Italia non c’è mai stata una Norimberga. Esistono forti pregiudiziali morali, le classi dirigenti al potere sembrano muoversi in spazi ridotti, senza respiro. Si parla di nazione, si tenta di imporre una nuova egemonia culturale, ma senza fare i conti con quel che essa rappresenta. Più che la pericolosità di questo tipo di operazione, ne va segnalata l’inutilità. Interpretando lo spazio della nazione in maniera ristretta, in realtà non si riesce a ricreare una nuova egemonia culturale. Si impedisce semmai una normalizzazione del Paese.