venerdì 29 novembre 2019
Atterrati a Fiumicino e ospitati fino a domenica a Rocca di Papa i richiedenti asilo salvati dai campi in Etiopia grazie al progetto della Chiesa italiana gestito da Caritas e Migrantes.
 In fuga da Eritrea e Sud-Sudan: diocesi accolgono 66 profughi
COMMENTA E CONDIVIDI

Scendono dal pullman con le valigie stipate dei loro pochi oggetti. Una donna porta una grande foto incorniciata del suo matrimonio. Sono fuggiti anni fa dagli arresti e dal servizio militare a vita del regime eritreo, dalle violenza della guerra sudanese, trovando accoglienza negli enormi campi profughi in Etiopia. Vite in stallo. Che ora però riprenderanno a scorrere. Tutti sperano di poter lavorare, mandare a scuola i figli, proseguire gli studi universitari interrotti. Sono i 66 richiedenti asilo, selezionati per particolare fragilità, trasportati in tutta sicurezza con un volo di linea. Grazie al corridoio umanitario aperto dalla Conferenza episcopale italiana il 3 maggio, con la firma al Viminale del secondo protocollo d'intesa col governo italiano. Ci sono giovani, famiglie, 26 bambini tra cui anche neonati.

Il gruppo, atterrato a Fiumicino alle 4 del mattino, arriva in mattinata a Rocca di Papa al Mondo migliore, nel Centro di accoglienza straordinaria gestita dalla cooperativa Auxilium e da una squadra di oltre 200 volontari delle parrocchie, dei Focolari e dell'Opus Dei. Una struttura nata negli anni '50 come centro per ritiri, con vista sul Lago di Castel Gandolfo. Un viaggio regolare che li ha messi al riparo dalle traversate infernali del deserto e del mare, dalle violenze, dagli stupri che segnano l'anima di chi è costretto a rischiare la vita per fuggire da morte sicura. Ora dopo un paio di giorni di riposo, visite mediche, pratiche burocratiche, domenica prenderanno la via per la loro sistemazione definitiva. Ad attenderli ci sono nove diocesi - Aosta, Asti, Brescia, Pavia, Pescara, Assisi-Nocera Umbra, Torino, Verona e Vicenza - che, anche con l'aiuto della Comunità di Sant'Egidio, hanno progettato percorsi di accoglienza su misura per le loro esigenze e le loro potenzialità. Complessivamente a sostenere l'accoglienza dei Corridoi umanitari della Cei sono finora 47 diocesi, in 17 regioni diverse e 87 comuni, ripartiti equamente tra Nord (32%), Centro (38%) e Sud (30%).

Molti di questi giovani hanno alle spalle percorsi universitari, la conoscenza di diverse lingue. Alcuni non erano riusciti per un soffio a rientrare nei limitati posti del progetto dei Corridoi universitari, di cui Caritas è partner assieme all'Acnur e all'Università di Bologna che ne accoglierà alcuni nelle sue facoltà. Tanti oggi ripetono che non vedono l'ora di ricominciare a studiare. Come Ibrahim, 26 anni, che parla inglese, arabo, tigré, amarico, afar, saho. «Presto anche l'italiano», assicura «Prima che finissi il college mi arrestarono perché facevo attività studentesca e avevo rifiutato di seguire il corso di indottrinamento politico». Due mesi in carcere. All'università studia arti e scienze sociali. «Vengo riammesso agli studi dopo un corso di "rieducazione", poi mi chiamano al campo di addestramento militare. Rifiuto e mi faccio altri tre mesi di carcere». Ibrahim capisce che ormai è nel mirino. Scappa. Yemen, poi Gibuti, il 25 agosto 2015 arriva in Etiopia. Al campo profughi le ong umanitarie si rendono conto che è un ragazzo sveglio e lo coinvolgono nelle attività di gestione. «Il mio sogno ora? Finire gli studi. E fare il tuo mestiere. Sì, il giornalista».

Anche Eyerusalem, 32 anni, è scappata per evitare l'arruolamento a vita. «Ho rifiutato, ma mi hanno costretta. Ho fatto sei mesi sotto le armi, poi sono scappata, anche se è molto pericoloso. Sono arrivata in Etiopia nel 2008 e sono riuscita a studiare psicologia e a frequentare un master in scienze sociali. Vorrei finirlo qui in Italia». Eyerusalem perde un bambino per colpa del diabete che non sapeva di avere. Ora è di nuovo incinta. A Pavia sarà ospitata in un istituto di suore e potrà riprendere gli studi. «Sono alla 29esima settimana, è un maschio. Il nome? Vorrei chiamarlo Miracolo».

Duop è sudsudanese, ha 27 anni e un viso da adolescente. Ma ne ha viste già troppe anche per un adulto. È un bambino quando scoppia in Sudan la guerra civile, nel 2008 la sua famiglia scappa in Etiopia, poi rientra. Ma nella regione è in corso una pesante opera di arabizzazione: «Io nemmeno lo parlavo, l'arabo». Nel 2011 l'indipendenza del Sud Sudan riaccende le speranze. Presto deluse: ancora scontri, ancora paura. Suo padre viene ucciso e nel 2014 la famiglia scappa di nuovo. Duop spera ora di poter riavviare la sua vita. Anche se ha dovuto lasciare la mamma, due sorelle e un fratellino. «I miss them, mi mancano» e si asciuga gli occhi col bavero. «Mi piacerebbe tanto, ma non so se la mia famiglia potrà mai raggiungermi. E se potremo mai tornare nel nostro paese. Mi sono diplomato, ora voglio continuare a studiare, informatica e diritto».

Monsignor Francesco Soddu non nasconde la sua soddisfazione: «Sono persone che abbiamo preso dai campi profughi – dice il direttore di Caritas italiana – e li abbiamo salvati dal mare dell’indifferenza, dal mare della sofferenza, dal mare di una umanità in deriva. Li abbiamo accolti e li abbracciamo. Le daremo ora alla comunità ecclesiale che è in Italia. Lo faremo attraverso 9 diocesi che si sono rese disponibili ad accogliere queste persone».




© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: