Braccianti del pomodoro al 100% con contratto regolare, senza caporali e liberi di iscriversi al sindacato. Non è un sogno. Accade in Capitanata, la terra foggiana, famosa purtroppo per lo sfruttamento dei lavoratori immigrati, per gli enormi ghetti come Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci.
Ma c’è anche altro. Lo racconta una ricerca dell’Ong Oxfam che ha monitorato i risultati del contratto triennale tra Coldiretti e Princes Industrie Alimentari (Pia), società inglese del gruppo giapponese Mitsubishi, che dal 2012 gestisce a Foggia il più grande stabilimento in Europa per la lavorazione del pomodoro, 300mila tonnellate di lavorato annuo, tutto pugliese, 1.300 dipendenti (quasi la metà donne) mille dei quali stagionali. E produce 450 milioni di confezioni di passate e pelati scegliendo una filiera etica della produzione agricola del pomodoro e assumendo, attraverso il progetto “Lavoro senza frontiere”, lavoratori immigrati in collaborazione con la Caritas di Foggia e altre associazioni. Proprio per questo due anni fa è stata premiata da Oxfam. Ora si è passati alla collaborazione.
L’Ong ha monitorato 218 lavoratori, tra 19 e 62 anni, in gran parte in Italia da più di 5 anni, impiegati in 43 aziende agricole, aderenti a 19 cooperative, fornitrici di Princes, circa il 20% della forza lavoro impiegata nella filiera del pomodoro in Italia di Princes. Una ricerca per migliorare la filiera stessa, in vista della campagna del pomodoro che scatterà nei prossimi giorni, la prima del secondo contratto triennale con Coldiretti. Il rapporto non ha valore di rappresentatività delle condizioni dei braccianti nell’intera Capitanata, che purtroppo è ben altro. Come sottolinea l’amministratore delegato Gianmarco Laviola, «è giusto aver fatto questa scelta, ma va fatta in modo corretto, scientifico, perché la sostenibilità sia vera, economica, ambientale ed etica. Ora bisogna continuare, e che anche altre filiere facciano lo stesso. Non può avere un futuro un mercato che non mette al centro il tema etico». Ed è quanto emerge dalla ricerca di Oxfam. A partire dalla continuità dei rapporti di lavoro. Così il 66% dei lavoratori è stato riconfermato e riassunto dalla stessa azienda agricola con lo stesso inquadramento contrattuale dell’anno precedente. Un bel segnale di fiducia. E senza caporali. Il 100% dichiara di aver trovato il lavoro autonomamente o tramite passaparola, e di non aver pagato nessun intermediario. Sempre il 100% ha confermato di non essere vittima di ricatto tramite la consegna dei documenti di identità, e il 99% ha dichiarato di sentirsi libero di poter lasciare il lavoro qualora trovasse migliori opportunità. Condizioni lontanissime da quello che emerge in molte inchieste della magistratura. E i lavoratori sono soddisfatti. L’87% dichiara che lo stipendio è adeguato a coprire i bisogni propri e delle loro famiglie. Va sottolineato che il 50% ha 5-10 e più persone a carico, ma solo per il 30% dice di dover lavorare più di 8 ore al giorno per assicurare standard di vita più adeguati. Per questi c’è il rischio di lavoro eccessivo ma è una libera scelta, infatti il 98% dichiara di non ricevere richieste di lavoro straordinario non retribuito e che gli straordinari vengono pagati di più. Anzi nel 70% gli immigrati esprimono un giudizio di equità di trattamento rispetto agli italiani. Nessuna discriminazione, neanche salariale.
Ma qualche criticità esiste. Infatti mentre la totalità ha dichiarato di poter andare in bagno e bere acqua quando ne ha bisogno (coi caporali è quasi impossibile), per il 78% l’acqua fresca se la devono portare da casa (ma dopo ore di sole non è più fresca) e non viene distribuita durante la giornata lavorativa, malgrado sia previsto addirittura da un regio decreto del 1921. Altra criticità riguarda la formazione e la conoscenza dell’italiano. È emersa la completa assenza di corsi di formazione tecnica o sui diritti del lavoro, a fronte, però, di un alto interesse ad essere formati (82%). Ancor più negativo il basso livello di conoscenza della lingua italiana, appena il 52%, anche se l’82% è in Italia da almeno 5 anni. Responsabilità sicuramente non delle aziende ma del sistema pubblico di accoglienza e integrazione, solo parzialmente sostituito dall’impegno del volontariato, soprattutto Caritas e sindacati. Così come la piena consapevolezza dei lavoratori sulla sicurezza nel poter denunciare abusi e violazioni. Ma solo il 26% dichiara di conoscere i canali con cui farlo. Resta grave la questione dell’alloggio con una prevalenza di informalità tra i lavoratori immigrati: il 57% ha dichiarato di vivere in case occupate, presso amici o non si esprime, il 42% di avere un regolare contratto di affitto, mentre il 16% alloggia presso abitazioni messe a disposizione dal datore di lavoro. Invece il 100% di lavoratori italiani vive in abitazioni di proprietà o con regolare affitto.
Parzialmente risolto l’altro “affare” dei caporali, quello dei trasporti. Per il 49% dei casi il datore di lavoro offre il servizio di trasporto al campo in modo gratuito. E lo fa col rimborso chilometrico al lavoratore che si occupa di passare a prendere e riaccompagnare i suoi colleghi con la propria auto. Un ulteriore 15% dei lavoratori, tutti stranieri, raggiunge i campi a piedi o in bicicletta, mentre un ulteriore 19% si sposta in auto in gruppo pagando 5 euro al giorno, la classica cifra che chiedono i caporali.