mercoledì 23 febbraio 2011
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Il futuro della medicina rigenerativa sta probabilmente nella capacità di stimolare le cellule staminali già presenti nel nostro organismo a mobilitarsi per riparare i danni a tessuti e organi. Ne è convinto Luigi Anastasia, responsabile del laboratorio di Cellule staminali per l’ingegneria tissutale dell’Irccs Policlinico San Donato e docente all’Università di Milano, che fa la spola tra gli Stati Uniti e Milano per un progetto di collaborazione con il Centro di medicina rigenerativa diretto da Piero Anversa a Boston. E sulle cellule riprogrammate (Ips), Anastasia predica prudenza: «Sono un bel modello, non ancora utilizzabile in clinica. Potrebbero essere utili per testare i farmaci». All’inizio del mese, un articolo scientifico ha causato incertezza sul futuro delle cellule Ips, sostenendo che finiscono col generare tumori. A che punto è la ricerca in questo settore? Dal 2006 a oggi c’è stata grande enfasi sulla riprogrammazione cellulare. È stata definita la terza via verso staminali simil-embrionali, che avrebbero potuto superare il dilemma tra staminali embrionali, con i problemi etici che si portano dietro, e staminali adulte, meno capaci di essere orientate verso altri tipi di tessuto. Ma due problemi sono stati subito evidenti, indipendentemente dalla riprogrammazione: come per le embrionali, è difficile indirizzare le Ips a differenziarsi come si desidera. Inoltre, già nel primo lavoro di Yamanaka erano stati usati oncogeni (in particolare C-Myc) per riprogrammare le cellule adulte: era nota la possibilità che questi geni potessero riaccendersi, provocando tumori, caratteristica peraltro proprio delle cellule embrionali. In queste ultime settimane, oltre all’articolo pubblicato da Cell Death & Differentiation, è uscito un editoriale su Nature, che mette in evidenza come le cellule riprogrammate non siano identiche a quelle embrionali. Soprattutto dal punto di vista epigenetico, cioè di come il Dna agisce, la cellula riprogrammata ricorda la cellula adulta da cui è stata generata, come se le riprogrammazione non fosse completa. Il vostro gruppo però utilizza sostanze chimiche e non geni per riprogrammare le cellule. Cambia qualcosa? Noi abbiamo utilizzato la reversina (un derivato della purina, ingrediente degli acidi nucleici) e altre molecole per far tornare indietro cellule adulte, ma non fino al livello embrionale. Le Ips restano un modello bellissimo, ma non ancora utilizzabile in clinica. Servono a testare farmaci, o anche a studiare – attraverso i fibroblasti di persone con malattie genetiche – come si sviluppano le malattie. Ma occorreranno ancora esperimenti perché la riprogrammazione sia efficiente: è spaventoso il numero di lavori usciti sulle Ips, eppure sono passati solo cinque anni da quando sono state scoperte, ci vorrà ancora tempo. Diciamo che questi ultimi lavori usciti sulla letteratura internazionale hanno reso palese cose che tutti sapevano dall’inizio. Questo però, ripeto, non vuol dire che le Ips non servano: in laboratorio sono un modello fantastico. I vostri esperimenti quindi a cosa mirano? Noi stiamo collaborando con il gruppo del professor Piero Anversa, che a Boston ha concluso una sperimentazione di fase 1 che ha avuto risultati molto positivi con le cellule staminali cardiache. Crediamo che la strada più promettente sia proprio quella delle staminali adulte, che già sono indirizzate a riparare l’organo in cui si trovano. Dagli esperimenti del professor Anversa è venuto il concetto forte che il 40 per cento del cuore si rigenera nel corso della vita. Un dato che nessuno immaginava solo poco tempo fa. Il trial clinico di fase 1 prevedeva che ai pazienti da sottoporre a bypass venisse asportata una piccola parte di miocardio durante l’intervento. Le cellule staminali del cuore isolate in questo tessuto venivano fatte crescere e se, a quattro mesi dall’operazione, il paziente non era migliorato con il bypass, veniva curato con queste cellule: su 20 pazienti la risposta è stata estremamente positiva. Le terapie cellulari sono da considerare come un vero e proprio farmaco, ma il futuro più lontano della medicina rigenerativa – diciamo tra dieci anni – è quello di trovare piccole molecole da usare come farmaci che riescano a stimolare l’intervento delle cellule staminali che si trovano già nei nostri organi.
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