sabato 25 maggio 2024
L'Italia non consentirà ai sedicenni di votare, altri Paesi sì. La provocazione di una coppia di ricercatori: escludere i ragazzi vuol dire discriminarli. Pagano le scelte degli adulti, non hanno voce
In Italia si vota dai 18 anni. Alle Europee in Germania e Belgio dai 16 anni

In Italia si vota dai 18 anni. Alle Europee in Germania e Belgio dai 16 anni - .

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Leonardo ha 16 anni. Frequenta un’organizzazione politica giovanile. In casa parla poco, ma quando accetta di avviare conversazioni che esulano dal calcio, gli argomenti che affrontiamo spaziano dalla guerra a Gaza alle vicende dei partiti politici, dai pregi e limiti dell’ecologismo al il ruolo dei social nella formazione dei giovani. Ginevra ha 13 anni, dice di non interessarsi alla politica ma ha già idee chiare sulla scuola, sulle esperienze internazionali, sulle coppie omosessuali, sullo spazio negato a giovani e bambini nelle grandi città. Entrambi osservano un Paese vecchio e pieno di acciacchi; Ginevra già si vede proiettata fuori da qui almeno per un po’, mentre Leonardo vuole restare, «perché è vigliacco andare via».

Leonardo e Ginevra sono cittadini italiani minorenni e quest’anno “voteranno” per la prima volta alle elezioni europee nonostante la legge italiana lo vieti. Leonardo e Ginevra sono nostri figli e saremo noi genitori a cedere loro il nostro diritto di voto. Ci faremo accompagnare al seggio e voteremo secondo le loro indicazioni. Peccato solo che loro non potranno entrare nella cabina con noi, come accade normalmente in altri Paesi.

Perché lo faremo? Perché questo è un Paese che ignora la voce, i desideri, gli interessi politici dei giovani. Negli stessi giorni in cui agli Stati Generali della Natalità si constatava il sostanziale immobilismo della politica di fronte all’ormai conclamato inverno demografico, sui giornali e nelle stanze del potere si discuteva intensamente del mantenimento dei benefici del superbonus 110% anche di fronte alle voragine nei conti pubblici che esso ha già creato.

Bisogna considerare assieme queste due notizie: per aiutare i genitori che oggi crescono i tanti Leonardo e Ginevra del Paese non ci sono mai fondi; ricordiamo infatti che la “epocale” riforma dell’assegno unico varata nel 2022 si è realizzata con 4-5 miliardi di euro di spesa annuale aggiuntiva, ed anche gli aumenti varati dal governo Meloni nel 2023 sono stati realizzati in larga parte con i risparmi ottenuti sulla spesa originariamente preventivata. Negli stessi anni invece, per consentire a persone mediamente ricche ed anziane di ristrutturare e valorizzare le loro proprietà immobiliari, con grande disinvoltura si è creato un debito aggiuntivo per 160 miliardi di euro che i Leonardo e Ginevra di domani dovranno ripianare.

Questo è un esempio specifico della condizione generale della spesa pubblica italiana. Secondo il rapporto sulla giustizia intergenerazionale della fondazione tedesca BertelsmannStiftung, nel 2012 l’Italia spendeva sette euro in politiche pubbliche che favorivano prevalentemente gli anziani (pensioni e sanità) per ogni euro speso in politiche che favorivano prevalente i giovani (scuola, università e politiche del lavoro).

Perché la quasi unanimità dell’arco politico non trova problematica l’idea di imporre ai minorenni una pesante tassazione differita in forma di debito pubblico per favorire gli interessi odierni di adulti ed anziani proprietari di casa? La risposta in fin dei conti è alquanto semplice: i minorenni non votano e quindi c’è poco da guadagnare - politicamente parlando - nel fare i loro interessi. I coloni inglesi al di là dell’Atlantico fecero nel 1700 la rivoluzione per rivendicare il diritto alla rappresentanza politica derivante dal fatto di essere generosi contribuenti della Corona. A distanza di due secoli e mezzo dal no taxation without representation dobbiamo affermare il principio che nessun debito pubblico può essere creato senza il consenso dei giovani che lo dovranno pagare.

Alle elezioni Europee del 6-9 giugno i sedicenni potranno votare in Belgio, Germania, Austria e Malta. Abbassare l’età del voto per rappresentare gli interessi politici dei giovani è un buon inizio, ma non basta. Innanzitutto, bisogna avere il coraggio di operare una riduzione ancora più radicale dell’età del voto. L’argomento che i minori non avrebbero le capacità cognitive ed il senso di responsabilità per votare è paternalistica, falsa e discriminatoria. Paternalistica perché i giovani sono rimasti l’unica categoria di cittadini per i quali ancora richiediamo la soddisfazione di qualche requisito per potere esercitare un loro basilare diritto di cittadinanza. Un tempo usavamo le stesse argomentazioni per escludere dal voto i poveri, le donne e le minoranze etniche. Falsa perché moltissimi adolescenti sono già buoni cittadini e si interessano di ambiente, educazione, lavoro, diritti e via discorrendo.

Davvero pensiamo che una o un minorenne che il venerdì marcia per il suo futuro con i Fridays For Future, che dedica il suo tempo libero al volontariato, o che magari partecipa attivamente ad una delle tante organizzazioni giovanili, abbia meno consapevolezza politica di quella quasi metà della popolazione adulta che nemmeno si prende più la briga di andare a votare? Infine, discriminatoria perché se davvero riteniamo che si possa votare in base alle capacità cognitive ed alla consapevolezza, dovremmo usare lo stesso metro per tutta la popolazione, considerando che le capacità cognitive toccano il picco intorno ai trentacinque anni e che esse tendono a ridursi nell’età più avanzata (per non parlare di chi soffre di patologie che incidono anche sulla cognizione).

Nessuno certamente vuole mettere in discussione il diritto di voto degli adulti in là con l’età che hanno capacità cognitive sotto la media per qualche ragione: sarebbe una follia impensabile; semplicemente poniamo la questione del perché neghiamo il diritto di voto ai giovani proprio in base a questo stesso principio. Per queste ragioni l’età del voto va radicalmente ridotta. Rimarrebbero comunque esclusi neonati e bambini, certo non in grado di esercitare autonomamente attraverso il voto la loro cittadinanza.

Per promuovere i loro diritti politici, è ora e tempo di prendere seriamente in considerazione l’idea del voto fiduciario, che i genitori potrebbero esercitare per conto dei propri figli fino al momento in cui gli stessi non siano in grado di esprimerlo autonomamente. Quella del voto fiduciario è un’idea che risale almeno al progetto di costituzione di Antonio Rosmini del 1848. Se tutti i cittadini sin dalla nascita potessero esercitare la loro cittadinanza attraverso il voto, inizialmente tramite delega ai genitori ed in seguito - quando fossero pronti per farlo - in maniera diretta, i politici dovrebbero rivedere i loro programmi elettorali per conquistare questa nuova fetta di elettorato; si otterrebbe così un cambio radicale delle politiche pubbliche a favore dei giovani e del loro futuro.

Nell’attesa di vedere un domani dove il concetto di “suffragio universale” sia davvero compiuto, da questa elezione in poi noi due adulti rinunciamo volentieri al nostro diritto di voto pur di permettere ai nostri figli, giovani con tutta la vita davanti (e debiti contratti dalla nostra generazione da saldare), di provare ad incidere più e meglio di quanto siamo in grado di fare noi. Certo, il nostro nucleo familiare composto da otto cittadini (cinque minorenni) continuerà ad esprimere solo tre voti e pertanto, anche se tutti i genitori di figli minorenni facessero come noi, l’effetto complessivo sulle politiche pubbliche rimarrebbe comunque limitato. Ma siamo certi che sarebbe l’occasione per parlare finalmente di politica con e per i giovani, nel Paese così come nelle singole famiglie.

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