venerdì 27 maggio 2022
La commozione dell’ex segretario del Ppi: «Auspicava il ritorno della politica per evitare la deriva della democrazia. E diceva che dalla politica non ci si può dimettere»
1986 Da sinistra Sergio Mattarella, e Ciriaco De Mita  e Pierluigi Castagnetti

1986 Da sinistra Sergio Mattarella, e Ciriaco De Mita e Pierluigi Castagnetti - Archivio Fotogramma

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Ripete quella frase di Ciriaco De Mita più volte, Pierluigi Castagnetti. Commosso. «Ho passato una vita nella convinzione che la democrazia fosse un dato acquisito. Inizio a pensare che sia solo una stagione della storia. Solo il ritorno della politica come passione per la vita della comunità potrà evitare la sua deriva». Ecco, dice l’ex segretario del Ppi, una vita nella Dc e una grande stima per l’amico scomparso: «Da qui si capisce perché faceva il sindaco a 90 anni».

Tanti lo commemorano, da tutti i partiti.

Se ne va plasticamente la Prima Repubblica, nel senso che era l’ultimo esponente di rango di quella stagione politica. Esce di scena uno che temporalmente ha fatto parte della Prima Repubblica, ma che aveva la testa nella Seconda. Voleva crearne le condizioni. De Mita ha cominciato a pensare alla riforma della Costituzione nel 1969, quando lanciò a Firenze il Patto costituzionale, chiamando in causa le forze che avevano scritto la nostra Carta, perché si impegnassero a rinnovarla.

Perché avvertiva già questa esigenza?

Perché da un lato vedeva che la democrazia italiana era bloccata e dall’altro che c’erano istituzioni che non erano capaci di produrre quell’efficienza di cui uno Stato moderno aveva bisogno. Lui era il segretario della Dc ma la sua testa era sul Paese. Voleva fare dell’Italia una democrazia moderna, che anticipasse i temi emersi di lì a poco con la crisi della rappresentanza, ma soprattutto dell’efficienza delle istituzioni.

Ciriaco De Mita nella piazza di Nusco in una foto del 1996

Ciriaco De Mita nella piazza di Nusco in una foto del 1996 - Ansa

Ci fu una risposta?

Tutti rimasero sorpresi, non capendo il motivo di questo dibattito. Anni dopo, nel 1983, alla sua prima campagna elettorale (era segretario dall’82), si presenta con un programma davvero innovativo. Attorno aveva un pool di consiglieri di primo livello, i compagni dell’Università Cattolica che aveva voluto con sé: Andreatta, Ruffilli, Balboni, i Prodi (Paolo e Romano), Raffaele Crovi. Ma prima di scrivere il programma, De Mita va in giro per l’Italia consultando l’intelligenza del Paese. Una delle sue tappe era Bologna. Io ero segretario regionale della Dc, eravamo un centinaio: il gruppo del Mulino, del Regno, della nuova facoltà di Scienze politiche, tutti gli ambienti culturali, persino un giovane prete fuori dagli schemi, Camillo Ruini... Ma il suo disegno forse era troppo coraggioso.

Perché troppo?

Non veniva compreso, tanto è che il risultato elettorale non arrise alla Dc, perché era un’idea di modernità eccessiva rispetto all’elettorato. Ma De Mita ha avuto sempre in mente un’idea di modernità. Per lui i cattolici democratici dovevano accettare la sfida dei tempi nuovi. Come De Gasperi 40 anni prima, era convinto che il popolarismo servisse ad ammodernare il Paese. Capiva la grandezza della tradizione sturziana, perché senza una prossimità del popolo alle istituzioni non si poteva rinnovare il Paese.

La sua Commissione bicamerale per le riforme si è arenata.

Non c’era la disponibilità del Parlamento di allora, non c’era la mentalità, c’era una competizione troppo accesa specie tra la Dc e il Psi. De Mita sentiva che il dibattito non poteva ridursi a una disputa tra due partiti, ma il Pci non si lasciava coinvolgere sul tema delle riforme.

Perché si mise contro la riforma di Renzi?

Era cominciata la fase polemica. Riteneva che quel coinvolgimento da lui auspicato non c’era nella riforma costituzionale, e c’erano rapporti tesi con Renzi. Ma anche se Renzi fatica a riconoscerlo, lui era un figlio della sua nidiata, perché a Firenze l’uomo di De Mita era Matulli e l’uomo di Matulli era Pistelli e l’uomo di Pistelli era Renzi, quindi c’era un collegamento ideale, anche se non c’è mai stata convergenza tra i due.

A proposito di "figliolanza", Letta ne ricorda l’interesse per i giovani.

Il primo atto da segretario fu di ripristinare il movimento giovanile che era stato commissariato da Fanfani. Chiese anche a me di collaborare alla promozione di un congresso dei giovani e ha sempre partecipato a tutte le iniziative del movimento giovanile, che elesse Renzo Lusetti, allora in competizione con Dario Francescini. De Mita era convinto che bisognasse ripartire da ragazzi motivati. E la sua attitudine pedagogica era rivolta a tutto il partito. I suoi "ragionamendi" (sorride, ndr) miravano a riabituare il popolo Dc a coltivare un’idea di futuro. Non faceva operazioni di vertice, ma coinvolgeva la base: questa era la differenza dal resto dei leader politici.

Tra i capolavori politici ci fu l’elezione di Cossiga al Quirinale, con la costruzione di un ampio consenso.

Assolutamente. Allora il suo primo nome era Leopoldo Elia, che aveva appena terminato l’incarico alla Consulta e piaceva al Pci, ma pare – così si diceva all’epoca – che non fosse gradito al Psi. E proprio perché credeva nella necessità di un consenso di tutti, si arrivò a Cossiga.

Come è sopravvissuto alla seconda Repubblica?

Ha capito che era iniziata una fase nuova e ha cercato di dare un contributo, attraverso il Ppi, la Margherita. Per lui, come diceva Robert Musil, la politica è il luogo in cui si decide ciò che deve accadere. Diceva che dalla politica non ci si può dimettere. Oggi uno degli effetti collaterali della guerra è il ritorno della politica. Chi se ne tira fuori, anche solo per pigrizia, deve capire che senza la politica non si ferma la guerra.

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