martedì 10 marzo 2020
La Corte Costituzionale ha bocciato la legge della Regione Lombardia del 2017. La Cisl: «Adesso le assegnazioni dovranno essere riviste e i bandi giù chiusi potrebbero essere invalidati»
Case popolari, perché la legge regionale lombarda è «incostituzionale»

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L’edilizia popolare è per tutti e le graduatorie per assegnare gli alloggi in edilizia agevolata non possono fondarsi su basi “etniche”. Così la Consulta ha bocciato ieri come incostituzionale una norma introdotta da Regione Lombardia secondo la quale le case pubbliche erano riservate soltanto ai residenti da almeno 5 anni.

«È irragionevole» negare l’accesso all’edilizia residenziale pubblica a chi, italiano o straniero, al momento della richiesta non sia residente o non abbia un lavoro nel territorio regionale da almeno un lustro; così sancisce la Corte costituzionale con la sentenza depositata lunedì.

Il requisito infatti «non ha alcun nesso con la funzione del servizio pubblico in questione, che è quella di soddisfare l’esigenza abitativa di chi si trova in una situazione di effettivo bisogno». Il quesito «di accertare il carattere discriminatorio» e la «legittimità costituzionale» della norma era stato posto a Roma un anno fa dal Tribunale di Milano, dopo il ricorso presentato da un cittadino tunisino laureatosi in Italia (ma residente in Lombardia solo da 2 anni) contro il Regolamento sull’edilizia pubblica deliberato dalla Regione il 31 luglio 2017, con presidente Roberto Maroni.

Secondo la Corte, chiedere una residenza superiore al quinquennio per concedere l’alloggio popolare non è giustificato e vìola i principi di uguaglianza sanciti dalla Costituzione (articolo 3); il presunto «radicamento» territoriale non può infatti assumere un’importanza assoluta e superare addirittura il dato dell’effettivo bisogno abitativo del richiedente.

La durata della residenza sul territorio regionale potrebbe semmai rientrare tra gli elementi preferenziali da valutare nella formazione della graduatoria. D’altra parte, per quanto riguarda gli stranieri, sarebbe necessario almeno considerare in modo diverso coloro che possiedono i requisiti di protezione internazionale, perché profughi di guerra o rifugiati. Infine un principio del genere è fonte di una discriminazione irragionevole; non è detto difatti che chi abita in regione da almeno 5 anni abbia più probabilità di altri di rimanerci.
Come aveva già motivato il Tribunale di Milano, «non vi è alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio».

Dunque la norma impugnata contrasta anche con il principio di uguaglianza sostanziale tra i cittadini, perché il requisito temporale richiesto contraddice la funzione sociale dell’edilizia residenziale pubblica.

«In un momento in cui molte Regioni ed enti locali puntano a valorizzare la “stanzialità” delle persone secondo una logica del “prima i nostri” – ha commentato l’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) – la sentenza segna un punto importante in favore della considerazione del bisogno che deve sempre guidare gli interventi sociali».

Anche Leo Spinelli, segretario Sicet Lombardia, e Pierluigi Rancati, segretario regionale Cisl Lombardia, mostrano soddisfazione: «È uno schiaffo alle politiche selettive e discriminatorie delle quali la Giunta si è fatta vanto in questi anni. Adesso i bandi di assegnazione nei Comuni devono essere rifatti e quelli già chiusi potrebbero essere invalidati».

L’anno scorso il governo regionale lombardo aveva incassato un’altra bocciatura simile, ma dalla Corte d’appello di Milano, per due norme di equivalente sapore “etnico” e approvate sempre dalla giunta Maroni: il cosiddetto “bonus bebé” e il sostegno all’affitto, anch’essi subordinati ai 5 anni di residenza nel territorio.

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