mercoledì 29 luglio 2009
Nei penitenziari italiani ci sono più di 23mila carcerati che potrebbero scontare la pena - se definitiva - nel Paese d’origine. Oltre agli accordi con Romania e Albania, allo studio analoghe intese con altri Stati come Marocco (5.085 persone) e Tunisia (3.046).
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    Una soluzione per alleggerire l’attuale popolazione carceraria? Permettere che una corposa quota di stranieri condannati in Italia sconti la pena in istituti del proprio Paese, per stare più vicino ai familiari e potersi poi reinserire nel proprio tessuto sociale. È una delle ipotesi cui sta lavorando il ministero della Giustizia, secondo quanto annunciato ieri ad Avveniredal sottosegretario Elisabetta Casellati. E in effetti, lo strumento giuridico per farlo esiste: si chiama “Accordo bilaterale per il trasferimento delle persone condannate”. In pratica, è un patto fra due Paesi ai fini dell’esecuzione di condanne definitive (in aggiunta alla Convenzione sul trasferimento delle persone condannate, sottoscritta a Strasburgo il 21 marzo 1983). Secondo quanto riporta il sito web del ministero di Giustizia, di accordi simili l’Italia ne ha siglati sei: i più recenti nel 2003 con la Romania e nel 2002 con l’Albania. Poi ci sono Cuba (1998), Hong Kong (1999), Perù (1994) e Thailandia (1994). In concreto, come funzionano? Abbiamo preso in esame i due più recenti, con Tirana e Bucarest, significativi in quanto la popolazione carceraria in Italia annovera quasi 6mila detenuti di quelle nazionalità (2.811 albanesi e 2.923 romeni). L’accordo con l’Albania esiste da sette anni, eppure finora i detenuti trasferiti nel Paese delle aquile sono stati, spiega sconsolata una fonte del Ministero, «meno di una cinquantina». E in Romania? «Meno delle dita di una mano». Insomma, gli accordi esistono, ma a un certo punto, per vari motivi, si sono intoppati. Il primo nodo è che gli accordi non si possano applicare a tutti indiscriminatamente. Possono essere trasferiti solo i detenuti soggetti a condanna definitiva. Visto che su 23.530 stranieri, il 58% é in custodia cautelare, la cifra si dimezza. Il secondo intoppo è che l’accordo con la Romania è stato siglato nel 2003, quando quel Paese non era nell’Unione europea. Successivamente è stato assoggettato anch’esso alle norme che regolano lo status dei 27 Paesi Ue, anche quelle inerenti all’espiazione della pena, che prevedono che sia il condannato a dare il proprio assenso circa un’eventuale detenzione nel suo Paese. E ovviamente, spiega la fonte del Ministero, «molti romeni sanno che, pur con le situazioni precarie che conosciamo, nelle carceri italiane si sta mediamente meglio che in quelle romene». A complicare la situazione, poi, ci sarebbe messa anche la burocrazia di Bucarest, la quale ogni volta che si profila una situazione di ipotetico trasferimento, compie meticolosi accertamenti, volti a verificare oltre ogni ragionevole dubbio che, ad esempio, il condannato sia veramente romeno. I detenuti albanesi invece potrebbero essere trasferiti anche senza il proprio assenso. Ma lì, chiarisce ancora la fonte, l’intoppo esiste di fatto: quando nel 2002 l’allora Guardasigilli Castelli stipulò il patto, le autorità albanesi pretesero che l’Italia contribuisse con un lauto finanziamento (si disse 2 milioni di euro, ma sarebbero stati almeno 8) all’edificazione di un penitenziario. Il carcere fu costruito ma venne riempito coi soli detenuti già presenti in Albania. Ora, per resuscitare l’accordo, starebbero di nuovo invocando aiuto.Questioni che il ministro della Giustizia, Angelino Alfano e quello dell’Interno, Roberto Maroni, conoscono bene. Per questo, nell’ultimo anno, si sono recati di persona, o hanno inviato propri rappresentanti, a Bucarest e a Tirana. L’intento è ottenere il funzionamento degli accordi, rendendo più fluide le reciproche relazioni diplomatiche. Inoltre, alcuni sherpa  starebbero studiano soluzioni analoghe con altri Paesi, che pure annoverano cospicue presenze nelle carceri italiane, come il Marocco (5.085) e la Tunisia (3.046). Prospettive di lavoro concrete, ma sulle quali nessuno si sbilancia: «Dico solo che siamo ottimisti e stiamo lavorando strenuamente affinché gli accordi funzionino presto», concede il titolare dell’Ufficio per il coordinamento delle attività internazionali (Ucai) del ministero di Giustizia, il magistrato Stefano Dambruoso.
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