mercoledì 8 gennaio 2020
Arrestati 13 caporali africani e 7 imprenditori calabresi. L'inchiesta è durata un anno ed è scattata dopo la denuncia di due braccianti stranieri picchiati e minacciati
Retata anti-caporalato, immigrati al lavoro 12 ore per 2 euro l'ora
COMMENTA E CONDIVIDI

Per la prima volta nella Piana di Gioia Tauro due braccianti immigrati denunciano caporali e imprenditori. Così, dopo un'inchiesta durata più di un anno, e in coincidenza col decennale della rivolta di Rosarno, sono scattati gli arresti per 13 caporali africani e 7 imprenditori calabresi, anche grossi, e sono state sequestrate tre aziende agricole.

È l'operazione Euno, la più importante per questo territorio, che prende il nome dallo schiavo siciliano che nel 136 a.C. guidò la prima guerra servile contro il possidente terriero Damofilo. Ma, denuncia il procuratore di Palmi, Ottavio Sferlazza, "c'è l'amarezza per il fatto che ancora una volta la magistratura è chiamata a una funzione di supplenza. Abbiamo interrotto un'attività criminale, assicurando giustizia a persone alle quali era stato negato il diritto di avere diritti e in particolare il diritto di affrancarsi dal bisogno. Ma - insiste il magistrato - dobbiamo registrare l'assenza della politica, quella alta, che dovrebbe risolvere queste condizioni di mancanza di accoglienza e integrazione che favoriscono lo sfruttamento".

Il procuratore dà atto "ai prefetti di essersi impegnati, all'umanità delle forze dell'ordine", ricorda lo smantellamento della baraccopoli di San Ferdinando, "ma si continua a vivere in una condizione di emarginazione". E accusa: "Dopo 10 anni non è cambiato molto". Fa i nomi dei braccianti morti bruciati, ma anche dell'ultimo trovato morto in un campo "per una grave forma di Tbc, morto per il freddo, morto sul lavoro". Lavoratori, insiste Sferlazza, "sacrificati sull'altare dell'inefficienza della politica".

Le indagini, condotte dai carabinieri della stazione di San Ferdinando e della compagnia di Gioia Tauro, col supporto del nucleo ispettorato del lavoro di Reggio Calabria, ha permesso di raccogliere concrete prove su "un fenomeno odioso e inaccettabile".

Alle 5 del mattino presso la baraccopoli di San Ferdinando e il campo container di Rosarno, i caporali obbligavano i braccianti, anche quelli che avrebbero voluto usare la bici, a salire a bordo di furgoni dove ne venivano stipati più di 15, su tavole di legno, secchi di plastica, cassette e copertoni. In alcuni casi i carabinieri hanno scoperto alcuni lavoratori che, rannicchiati nel bagagliaio di station wagon, alla vista dei militari scappavo per non farsi identificare. Un'inchiesta "vecchia maniera", hanno sottolineato gli investigatori, frutto soprattutto di pedinamenti, osservazioni, videoriprese, ma anche nascondendo dei Gps sui mezzi dei caporali per seguirli e identificare le imprese coinvolte.

Qui i braccianti erano costretti a lavorare 7 giorni su 7, festivi compresi, per 10-12 ore, senza alcuno dispositivo di protezione e con ogni tempo. "Anche se piove, se diluvia, devono andare a lavorare", è l'ordine che si sente in un'intercettazione. La paga giornaliera era di un euro a cassetta di frutta raccolta, comunque non superiore a 2-3 euro per ogni ora di lavoro. Così invece dei 50 euro giornalieri previsti da contratto nel ricevevano 25-30, ma poi ne dovevano consegnare 6 al caporale e altri 7 per non chiari "contributi". Uno sfruttamento che si è riusciti a provare "grazie al coraggio di due immigrati che hanno avuto fiducia nelle istituzioni", sottolinea il procuratore. Il primo è stato un senegalese picchiato e ferito con un forcone "solo perché aveva chiesto quanto pattuito col caporale". Il secondo, un nigeriano, "aveva osato pretendere 297 euro che doveva avere". Nove persone sono così venute a cercarlo per dargli una lezioni ma lui è riuscito a scappare. Gli arrestati e gli indagati, in tutto 35, sono accusati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di alcune ragazze nigeriane.

Tra le accuse a un caporale e un imprenditore anche l'estorsione, per aver non solo non corrisposto quanto dovuto a un bracciante, ma anche per avergli impedito di venire a lavorare, "un licenziamento di fatto". Davvero un trattamento di sottomissione, documentato anche dal filmato che riprende il baciamano dei braccianti a un caporale, risultato poi anche un imam. "Questa inchiesta - ci tiene a sottolineare il comandante provinciale dei carabinieri, colonnello Giuseppe Battaglia - ha il fine nobile di tutelare le fasce deboli. Non siamo qui solo per combattere la 'ndrangheta, ma per proteggere tutti, italiani e immigrati".

Lo conferma il comandante Gruppo di Gioia Tauro, tenente colonnello Andrea Milani. "Non abbiamo assolutamente trascurato il fenomeno del caporalato, e la lotta a questo fenomeno criminale". E finalmente qualcuno collabora. "Non potevamo ascoltare inermi questa loro richiesta di aiuto - conferma il comandante della compagnia di Gioia Tauro, capitano Gabriele Lombardo -. Così per 6 mesi abbiamo vissuto coi braccianti, alzandoci alle 4 col freddo e la pioggia. Anche nei giorni di allerta meteo, mentre scuole e uffici restavano chiusi, noi eravamo nei campi in mezzo al fango. Ora auspico che altri decidano di denunciare, noi saremo ben lieti di ascoltarli".

Intanto le tre aziende sequestrate saranno affidate ad amministratori che ne gestiranno l'attività mettendo in regola i lavoratori. Per loro la vita cambia. Ma l'inchiesta non è certo finita.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: