martedì 18 ottobre 2011
Il premier: «Facciamo fuori il tribunale di Milano». Vietti (Csm): «È sconcertante». Le frasi del 2009: «O me ne vado io, che non sto bene, o facciamo una rivoluzione con milioni di persone. E assediamo Repubblica»
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​Altro che "riposo del guerriero". Il lunedì dopo il voto di fiducia che ha messo temporaneamente in salvo l’esecutivo inizia con una bomba che da Pescara deflagra sul premier. È il 20 ottobre 2009, Berlusconi riceve una telefonata di Lavitola e si sfoga con parole mai sentite prima: «O io lascio, cosa possibile dato che non sto bene, oppure facciamo la rivoluzione, ma la rivoluzione vera... Portiamo in piazza milioni di persone, facciamo fuori il palazzo di giustizia di Milano, assediamo Repubblica: cose di questo genere, non c’è un’alternativa...».Pochi minuti e si scatena l’inferno. «È un fascista-piduista, fa tutto in funzione della propria impunità», grida Di Pietro. Tutte le opposizioni invocano il passo indietro, per il Pd è «eversione allo stato puro». Ma la vera scossa arriva in serata, quando il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, solitamente prudente, va giù pesante: «Non esistono complotti e congiure dei giudici di Magistratura democratica, è una fantasia. Queste frasi, seppure usate in una conversazione privata, lasciano estremamente sconcertati. Lasciano ai cittadini l’idea di un conflitto in cui una istituzione delegittima le altre. E questo è molto pericoloso perché crea un effetto boomerang: alla fine ne usciremo tutti delegittimati». E giusto per aggiungere nero al nero della giornata del premier, boccia di nuovo, senza se e senza ma, il processo breve.L’intercettazione-choc, dell’ottobre 2009, proviene dall’inchiesta abruzzese sui fondi pubblici ricevuti dall’Avanti, il giornale di Lavitola. Ed è, in pratica, la versione hard di quanto il premier ha detto e ridetto nei suoi videomessaggi: «Non conto un c..., se il Parlamento fa una legge Napolitano non la firma, la Consulta è occupata dalla sinistra...». Si riferisce alle intercettazioni, ma anche alle bocciature subite da lodo Alfano e legittimo impedimento. E poi tanto rammarico personale, legato agli «insulti» dei cittadini nelle sue uscite pubbliche e al «discredito internazionale» cui è costretto il Paese. Da qui la paventata «rivoluzione» che poi, nelle sedi politiche della maggioranza, si trasformava in un più neutro desiderio di scendere in piazza per denunciare il «circuito mediatico-politico-giudiziario» di cui il Cavaliere sarebbe vittima.Il contesto presenta un Lavitola particolarmente «insistente» con la segretaria del premier, Marinella, specie quando si tratta di fondi all’editoria e di favorire l’accesso del generale Spaziante a palazzo Grazioli.La vicenda ripropone il copione politico delle ultime settimane. Le difese anti-intercettazioni e a favore del premier non sono più, e da tempo, il consueto fuoco di sbarramento che prima coinvolgeva tutto il Pdl. Si espone qualche colonnello e pochi altri. La Lega ormai tace su qualsiasi vicenda che riguardi il tormentato rapporto del premier con la giustizia. E l’opposizione incalza. «Sembra un black block», ironizza il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. «Sono cose indegne di un premier», rincara la democratica Anna Finocchiaro.Tra gli atti di Pescara emerge un Lavitola che, pur di aumentare il proprio peso specifico, millanta persino una telefonata con il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato vaticano. Secca la smentita di padre Lombardi: «Naturalmente questa chiamata non c’è mai stata. La notizia è priva di fondamento».Tornando alla politica, pur essendo forte nel premier la tentazione di una sferzata improvvisa sulle intercettazioni, pare che il calendario parlamentare non subirà modifiche e che l’iter del ddl procederà come da programma, per evitare intoppi che potrebbero far saltare l’esecutivo. Così come l’avviso del Csm (presieduto da Napolitano) sul processo breve fa riflettere sull’opportunità di portare la battaglia nell’aula del Senato.
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