mercoledì 14 giugno 2023
Il politologo Francesco Bonini, rettore della Lumsa: il cardinale Ruini giudicava positivamente il bipolarismo per l’efficienza del Paese. Secondo lui, i fedeli potevano schierarsi, ma la Chiesa no
Il rettore della Lumsa Francesco Bonini

Il rettore della Lumsa Francesco Bonini - Imagoeconomica

COMMENTA E CONDIVIDI

«L’Italia è il Paese che amo». Con questa frase, nel 1994, Silvio Berlusconi scese in campo e vinse le elezioni. Quanto pesò il voto cattolico?

Al momento della discesa in campo, l’universo dei votanti cattolici attraversava una fase di disorientamento per la fine della Dc e fornì una parte significativa degli otto milioni di voti raccolti da Forza Italia - risponde Francesco Bonini, politologo e rettore dell'Università Lumsa -. Dopo quel voto la posizione dell’episcopato cambiò: la Chiesa prese atto della fine dell’unità politica e nel 1995 si consumò la rottura tra Buttiglione e quella parte del Ppi che si sarebbe schierata con l’Ulivo.

Perché molti cattolici votarono Berlusconi?

Lo fecero in nome dell’equilibrio “moderato” di pentapartito e lui fu bravo a utilizzare quel residuo di anticomunismo che per anni aveva sostenuto le correnti di centrodestra della Dc. Ma quei voti non andarono solo a Forza Italia, bensì anche al Ccd e ad An, come prima erano andati alla Lega. Berlusconi però riuscì a rappresentare e “federare” tutto questo consenso “moderato” accentuando un fenomeno che era nell’aria, cioè la polarizzazione del voto. Il bipolarismo nasce nel ’94, intorno alle categorie dei berlusconiani e degli antiberlusconiani, entrambe peraltro funzionali al suo successo politico e alla sua longevità sulla scena.

Ruini spianò la strada a Berlusconi?

No, Ruini riteneva che in Italia il bipolarismo sarebbe stato una cosa buona perché avrebbe reso più efficiente il Paese, ma nutriva anche la convinzione che le istituzioni cattoliche non dovessero rimanervi invischiate. I cattolici potevano schierarsi, la Chiesa no. Così, traghettò il popolo cattolico nel nuovo mondo, ma evitò di incollare l’istituzione ecclesiale a uno dei due “corni” del bipolarismo. Quella che passò per essere una “strategia da Richelieu” in realtà rispecchiava l’indicazione magistrale di Giovanni Paolo II secondo cui l’episcopato era un soggetto sociale e non politico, poteva “fare politica” a suo modo - e la fece con il referendum sulla fecondazione assistita -, ma non chiudersi in un partito e diventare servo di uno schieramento.

Perché i cattolici di destra e di sinistra hanno visto nella fine dell’unità un tradimento?

Mah! In realtà era sempre stata presentata come una scelta di carattere pastorale e storico, legata alla peculiare vicenda italiana, attraversata dalla “cortina di ferro” nel proprio sistema politico, non una declinazione della dottrina. Era dunque una scelta passibile di essere superata al cambiamento del quadro. Del resto, a ben leggere i documenti della Cei e i discorsi di Wojtyla da Loreto in poi, questa dimensione storica dell’unità politica, che peraltro ha assicurato la stabilizzazione e lo sviluppo della democrazia in Italia, emerge chiaramente. Ruini si limitò a prendere atto della fine della ”eccezione” italiana, rilanciando peraltro su un altro piano, con il “progetto culturale”.

Allora perché fu così aspramente criticato?

Il mondo cattolico italiano è sempre stato molto dialettico, anche se per fortuna la polarizzazione politica non diventa mai polarizzazione ecclesiale. Questo grazie anche alle altre grandi personalità di vescovi e cardinali che caratterizzano quei lunghi anni della presidenza della Cei. A cui si rimprovera la mancata deprecazione pubblica dei comportamenti personali di Berlusconi. Piano peraltro distinto, ma strutturalmente intrecciato con quello politico e anche giudiziario. Un intreccio da cui era giusto tenersi alla larga, guardando invece al nodo strutturale. Si trattava di impostare nuove forme di soggettività e di interlocuzione pubblica dei cattolici: un impegno ancora all’ordine del giorno.

I cattolici su che basi fecero la loro scelta?

Direi su due “anti”. Nel merito, chi vota Berlusconi lo fa “contro” l’egemonia o il pericolo delle sinistre. Oppure si vota “contro” Berlusconi e la sua idea di consumo. In realtà, anche se la pistola del moralismo è sempre carica, spesso i comportamenti personali minano i disegni politici, come si vede tra il 2009 e il 2010, dal consenso di Onna alla festa di compleanno di Casoria.

Che cosa mancava a Berlusconi per essere visto dai cattolici come l’erede della Dc?

Forza Italia aderisce al Ppe come approdo di legittimazione, dopo essere stata vista con diffidenza per le sue caratteristiche “populiste”, come si diceva allora, superando le obiezioni dei popolari italiani, che poi peraltro confluiranno nel Pd. La Dc non ha “eredi” nella cosiddetta “Seconda Repubblica”: si dissolve di fatto. Oltre a Berlusconi stesso, nella sua proposta politica ci sono poi pezzi di culture politiche, soprattutto quelle del pentapartito a propulsione craxiana.

Il bipolarismo politico è stato anche ecclesiale?

No, ci sono state e ci sono differenziazioni, anche tra movimenti ed associazioni, ma si è evitato che lo schema investisse l’istituzione ecclesiale in quanto tale; ed è assolutamente necessario evitarlo ancora oggi.

Berlusconi è stato uno statista?

Dipende da che cosa si intende per statista. Certo ha occupato Palazzo Chigi per il periodo più lungo nella storia repubblicana, 3.300 giorni circa, secondo solo a Giolitti sul più lungo periodo unitario. In cui peraltro spiccano solo due nomi: Cavour, che tra l’altro era l’uomo più ricco del Regno di Sardegna, e De Gasperi.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: