martedì 24 novembre 2009
I sindaci contro la norma della Finanziaria. Senza l’intervento della Camera i beni possono tornare alle cosche, tramite prestanome e grazie alla loro disponibilità di soldi in una fase di crisi economica generale.
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È rivolta dei sindaci antimafia contro l’emendamento del governo che ha inserito nella legge finanziaria la possibilità di vendere i beni confiscati alle mafie, per finanziare sicurezza e giustizia. Una norma che modificherebbe profondamente l’attuale (La Rognoni-La Torre) che, invece, esclude la vendita, prevedendo l’utilizzo di case e terreni portati via alle cosche solo a fini sociali e istituzionali. In altre parole per cooperative di giovani, associazioni del volontariato, scuole, forze dell’ordine. Ora si cambia e all’asta potrebbero andare quei tremila beni che ancora non sono stati assegnati allo Stato o ai Comuni. E sono proprio questi ultimi a chiedere con forza che la norma, approvata dal Senato, sia ora tolta dalla Camera. Per evitare uno «stravolgimento» della legge e che i beni possano così tornare in mano ai mafiosi, tramite prestanome e grazie all’enorme disponibilità di soldi delle cosche, in una fase di crisi economica generale.In testa alla protesta paesi un tempo simbolo del potere mafioso, quello dei Corleonesi. Si tratta degli otto comuni del Consorzio "Sviluppo e legalità", nato nel 2000 proprio per promuovere e sostenere una corretta e efficace gestione dei beni confiscati a boss del calibro di Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Bernardo Brusa. Monreale, Corleone, San Giuseppe Jato, Piana degli Albanesi, San Cipirello, Altofonte, Camporeale, Roccamena: paesi un tempo tristemente noti, oggi esempi di cambiamento. Non antigovernativi. Ben sette di essi sono infatti guidati da giunte di centrodestra e solo uno di centrosinistra. Ma questa volta non approvano l’operato di Roma. Chiedono che la Finanziaria sia emendata e daranno forza alla loro richiesta salendo nella Capitale, dove coi gonfaloni e la fascia tricolore intendono manifestare prima davanti all’Agenzia del demanio (incaricata di mettere in vendita i beni che non riusciranno ad essere assegnati nei tempi previsti) e poi davanti a palazzo Chigi e Montecitorio.Ma i Comuni dell’Alto Belice e del Corleonese non sono gli unici ad aver preso posizione contro l’ipotesi di vendita. Sempre in Sicilia anche la giunta di Niscemi, in provincia di Caltanissetta, paese ad alto rischio ma fortemente impegnato sul fronte del riscatto, ha approvato un documento, proposto dal sindaco Giovanni Di Martino, che parla di «stravolgimento inaccettabile di quanto previsto dalla legge Rognoni-La Torre». Invitando «tutti gli altri comuni a prendere posizione contro questo atto che frena la legalità».Risalendo la Penisola, si muovono anche alcuni Comuni della "caldissima" Piana di Gioia Tauro, terra di potenti ’ndrine, ma anche luogo dove opera una delle più belle realtà sui beni confiscati, la cooperativa "Valle del Marro", nata dalla collaborazione tra diocesi di Oppido-Palmi e "Libera". Qui la protesta arriva da San Giorgio Morgeto e Polistena, dove il consiglio comunale ha approvato all’unanimità un documento che chiede al governo e al Parlamento di eliminare la possibilità di vendita dei beni confiscati.E dal fronte "anti vendita" non mancano anche Puglia e Campania. In provincia di Bari si è mosso il Comune di Giovinazzo che da anni ha assegnato a due associazioni che si occupano di disabili e malati psichiatrici i propri beni confiscati. In Campania la protesta arriva da Castelvolturno, dove da poco è nata la cooperativa "Le terre di don Peppe Diana" che produrrà le "mozzarelle della legalità", e da Pompei. Il sindaco della famosa città vesuviana, Claudio D’Alessio, dopo aver fatto votare un documento alla giunta, che si appella alla Camera per modificare la Finanziaria, ne spiega così la motivazione: «Tale norma vanificherebbe il lavoro di tutti coloro che sono impegnati nella lotta alle mafie e ad ogni forma di illegalità».Molti di questi Comuni, e anche molti altri in giro per l’Italia, hanno aderito all’appello di Avviso pubblico, l’associazione che organizza e coordina i Comuni sul fronte della legalità, hanno approvato ordini del giorno che chiedono a governo e Parlamento di eliminare la possibilità di vendita e sui loro siti internet hanno posto il banner con la scritta "I beni confiscati sono cosa nostra" e l’invito a firmare l’appello promosso assieme a "Libera".Un fronte in movimento e molto convinto. Come ha spiegato il sindaco di Corleone, Antonino Iannazzo in una lettera inviata al presidente della Camera, Gianfranco Fini, suo collega di partito (entrambi Pdl ed ex An). «Con molte probabilità, la vendita dei beni confiscati ai mafiosi comporterà, nei nostri territori, che questi ne rientrino in possesso tramite prestonome, vanificando quanto di buono si è fatto negli anni passati». Il primo cittadino del paese di Riina e Provenzano, dove oggi i beni confiscati sono gestiti da due cooperative, aggiunge che «nessuna utilità di carattere economico finanziario può essere raffrontata al valore, non solo simbolico, della confisca dei beni alle mafie. Oggi a Corleone – insiste con forza – i beni confiscati sono occasione di lavoro per giovani disoccupati, sono o stanno diventando centri sociali, musei, caserme, ma soprattutto sono e devono restare il segno tangibile dello Stato nel territorio quale deterrente per le famiglie dei mafiosi». Per questo lancia l’appello: «La Camera dei deputati preservi i principi di legalità per cui questa comunità ha lottato e continua a lottare».
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