lunedì 17 ottobre 2011
​Un esercito di ingegneri, medici, avvocati esce allo scoperto e si schiera con nome, cognome e partita Iva contro la mafia. Una rivoluzione culturale in una Palermo sempre meno accondiscendente alla dittatura mafiosa, che condiziona ancora l’economia dell’isola.
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Un esercito di ingegneri, medici, avvocati esce allo scoperto e si schiera con nome, cognome e partita Iva contro la mafia. Una rivoluzione culturale in una Palermo sempre meno accondiscendente alla dittatura mafiosa, che condiziona ancora l’economia dell’isola. Una rivoluzione perché, nel tentacolare universo mafioso, sono i colletti bianchi, anzi i colletti sporchi, a rappresentare la cosiddetta «zona grigia». Ma c’è chi ha scelto di dire basta, perché si deve essere «liberi per scelta, non per professione» come recita l’efficace slogan che ieri a Palermo ha presentato al grande pubblico il manifesto dei «Professionisti liberi», un decalogo pensato per le categorie professionali che vogliono concretamente impegnarsi contro la criminalità organizzata a partire dal proprio agire quotidiano. Un’ovazione al teatro Biondo di Palermo ha salutato la nascita di questa iniziativa. Il documento, che può essere firmato anche online (www.professionistiliberi.org), impegna i suoi sottoscrittori, fra le altre cose, a non prestare alcuna forma di opera professionale, anche sotto forma di pareri e consigli, a soggetti condannati per mafia o comunque incorsi in gravi violazioni di legge, esclusi ovviamente medici e avvocati chiamati a salvaguardare il diritto alla salute e quella alla difesa nel giusto processo. Ma c’è anche l’impegno «a respingere e denunciare qualsiasi forma di pressione o imposizione mafiosa tesa a condizionare l’attività e l’autonomia professionale». Tra i sostenitori c’è Alessandro Calì, ex presidente dell’Ordine degli ingegneri di Palermo, che fu il promotore nel 2008 della cancellazione dall’albo di Michele Aiello, l’imprenditore della sanità privata di Bagheria condannato per mafia.

Calì ha subito intimidazioni e attentati, ma non ha mai abbassato la testa: «Per noi etica e morale non si possono declassare a moralismi, garantismo non è impunità. Non è più tempo di restare sugli spalti e vedere come va a finire. Ciascuno deve fare qualcosa».

Il decalogo che è stato già sottoscritto da quasi 1.200 professionisti siciliani, «i cui nomi saranno vagliati da una commissione di garanzia – chiarisce Enrico Colajanni, presidente di Libero Futuro –. Perché vogliamo essere accoglienti, ma vigili». Il rischio della collusione, infatti, è alto. Lo spiega con poche parole Maurizio De Lucia, sostituto della Direzione nazionale antimafia: «È una caratteristica della mafia quella di camminare a braccetto col potere e i professionisti rappresentano una fetta del potere. È allora fondamentale creare una barriera alla contiguità con la mafia, offrendo il proprio nome alla città, perché questa giudichi la coerenza dei comportamenti». Un controllo pubblico che viene richiesto anche da Tano Grasso, presidente onorario della Federazione delle associazioni antiracket italiane.

Ma più coerenza viene chiesta anche al mondo politico. Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria Sicilia, solleva l’urgenza della questione morale: «Non si può aspettare la sentenza passata in giudicato per prendere un provvedimento. Bisogna sanzionare i comportamenti che, se anche non hanno rilevanza penale, danno comunque un messaggio devastante alla nostra società». «Rinasce da qui la speranza dei palermitani onesti», si legge su uno striscione appeso alle pareti del teatro, e lo testimoniano magistrati e rappresentanti delle forze dell’ordine presenti.

Ci sono, fra gli altri, il procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone e il sostituto Michele Prestipino, il questore Nicola Zito, il presidente di Confcommercio Palermo Roberto Helg. E c’è il procuratore di Palermo Francesco Messineo, che ricorda: «La mafia non potrebbe realizzare certe iniziative nel settore economico, senza contare sulla complicità di liberi professionisti, perché non ne avrebbe le competenze». Allora, aggiunge Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio (l’avvocato assassinato a Milano nel 1979), «essere presenti qui vuol dire impegnarsi concretamente, nella propria professione, per uno Stato diverso».

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