sabato 22 febbraio 2014
La Fondazione Zancan: «Siamo tra i pochi Paesi ancora convinti che per aiutare una persona basti un assegno e non, invece, il sostegno per renderla attiva».
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Un milione di famiglie senza reddito, disoccupazione al 12% e quella giovanile oltre il 40, consumi famigliari ai livelli di 17 anni fa mentre al 40% dei più ricchi va un quarto della spesa sociale. Fotogrammi già visti dell’Italia impoverita del 2013, che spende paradossalmente male o soldi per i bisognosi. Li ha scattati l’ultimo rapporto della Fondazione Zancan "Rigenerare capacità e risorse". La novità sono gli spunti per correggere l’inefficienza della lotta alla povertà usando la cosiddetta capacità generativa. Una riforma del welfare a costo zero, insomma, con il coinvolgimento di comuni e terzo settore. «Questa crisi – premette Tiziano Vecchiato, direttore della Fondazione padovana – trova impreparati gli addetti ai lavori. Tutti continuano a chiedere fondi, come se per curare un tumore si chiedessero cure palliative». Segno, per la ricerca, di politiche pubbliche superate. In sintesi, la quantità destinata ogni anno in Italia alla lotta alla povertà e al contrasto dell’esclusione, circa 50 miliardi all’anno, è sufficiente ad aiutare e generare lavoro nell’assistenza sociale. Per giunta è aumentata di quasi un quinto negli ultimi 20 anni. Raccogliere e redistribuire, scrive la ricerca, è un approccio senza futuro. La raccolta fiscale è in affanno né è redistributiva la quota del fisco destinata a welfare e servizi pubblici, anche perché un quarto della spesa sociale erogata tramite trasferimenti monetari dell’Inps e agevolazioni fiscali va al 40% di famiglie benestanti. «La quantità – spiega Vecchiato – ammonta alla metà della spesa sanitaria pubblica complessiva. Ma, se con questa diamo lavoro a un milione e 260 mila persone, con i 50 miliardi dell’assistenza sociale diamo lavoro solo a 3-400 mila persone. In proporzione, meno del lavoro generato dalla spesa sanitaria o da quella per l’istruzione. Siamo rimasti uno dei pochi paesi a credere che per aiutare una persona in difficoltà basti un’erogazione assistenziale e non l’accompagnamento o il sostegno per renderla attiva, come direbbe Amartya Sen». Il rapporto ha provato ad applicare la politica generativa all’Italia. Descritta da Vecchiato, la proposta di riforma dell’assistenza sociale pare l’uovo di Colombo: «Proviamo a immaginare un welfare diverso, generativo, dove la capacità degli aiutati diventa motore di sviluppo economico. L’obiettivo è una società solidale che inventa e sviluppa un corrispettivo dei diritti, mentre la cultura liberale e quella social-comunista hanno sviluppato solo i diritti individuali, ma ci vogliono anche quelli sociali. In cambio dell’aiuto si domanda a chi riceve di fare qualcosa per il bene comune, salvaguardandone la dignità e dandole valore economico». Un esempio fornito dal rapporto è quello, famoso, della Alessi di Omegna che ha destinato a valore sociale il tempo dell’80% dei propri operai in Cassa integrazione mettendoli a servizio della comunità. Oppure quello di alcune mamme immigrate di Napoli in stato di grave necessità a cui volontari hanno fornito viveri per i bambini. In cambio, dato che conoscevano l’arabo, si sono messe a disposizione degli studenti di Lingue orientali per i colloqui. «Si è creato così – chiosa Vecchiato – un valore generativo di capacità e risorse. E i cinque euro per pagare loro il latte sono diventati almeno 25. Spendiamo sei miliardi all’anno in assegni famigliari, nessuno se ne accorge. Eppure la somma è appena più bassa dei sette miliardi di spesa sociale degli oltre 8000 comuni italiani. Sono risorse messe sotto la sabbia, ma potrebbero diventare con la logica generativa un fondo di investimento per servizi alla famiglia generando occupazione. Serve coraggio». E approcci nuovi. Un’idea per il governo.
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